Judt è stato uno storico di valore. Di quelli che non si può non leggere. Assieme a Hobsbawm, Kershaw, Davies, Kerzer (Solo per citarne alcuni) fa parte di quella categoria di studiosi che ritengono indispensabile raccontare. Perché la Storia va anzitutto raccontata.
Questa serie di saggi (gli ultimi pubblicati con lui in vita) sono preziosi perché svelano il pensiero che sta sotto le sue opere. E’ un pensiero talvolta lontano, talvolta più vicino a quello che è il mio sentire; quindi un pensiero di parte, e di una parte che non è la mia. Ma si sente che è meditato, in buona fede, e non assunto a dogma. Si capisce così perché le sue opere diventino patrimonio di tutti, e non possano essere usate in chiave propagandistica.
E così, le accuse a Israele e agli Stati Uniti; la condanna senza appello del comunismo e – con appello – del marxismo; l’anti-antisemitismo; l’antisionismo; il ruolo dello stato nella società: tutto questo diventa importante per capire perché opere come “Postwar” (forse la sua più famosa) siano strutturate in una certa maniera e diventino pietre miliari della storiografia contemporanea.
Il difetto di questo libro sta proprio nella sua eterogeneità, e nell’essere talvolta eccessivamente separato dal suo mestiere: non si fosse certi di chi Judt è stato, si ha talvolta l’impressione che a parlare sia uno di quei tuttologi da salotto TV da cui personalmente rifuggo come la peste. Poi, dopo magari una pagina e mezza, arriva però una frase a illuminare il contesto e a riconciliarci con l’opera.
E’ una lettura non leggera, forse in alcuni passi troppo pessimista (e la moglie, che ne è la curatrice, averte di ciò all’inizio), ma che vale la pena fare per capire – se non altro – la differenza tra la storiografia nostrana e quella anglosassone.
Voto 3/5