L’ultimo libro del compianto Stefano Tomassini è un regalo che ci fa su ciò che era la Capitale nei primi trent’anni di Italia unita.
A differenza degli altri è un libro intimo, quasi più incentrato, talvolta, sulle sue sensazioni come ricercatore di storie che non sulla storia in sé. Cosa non negativa, anzi: spesso da pepe a racconti che rischiano di essere troppo noiosi.
È l’unico difetto di un libro che mostra come l’atteggiamento tutto italiano di far prevalere il familismo amorale sul senso di comunità non sia una cosa che nasce oggi, ma che è sempre stata presente come caratteristica sin da subito. Frutto di secoli si sudditanza e di una creazione nazionale “gestita” dai più in maniera gattopardesca.
Scopriamo così le miserie usate per farsi eleggere (o per impedire un’elezione), la ricerca degli esecutori invece che dei mandanti per omicidi eccellenti, lo sfruttamento di figure nobili (Addirittura Garibaldi!) per i propri sordidi interessi di bottega, fino all’analisi della madre di tutti gli scandali di quel trentennio: quello della Banca Romana, dove a un certo punto il letamaio era così grande, e coinvolgeva così tante persone tra cui il Re stesso, che si mise tutto a tacere.
Insomma, un libro lungo, come al solito ben scritto (e mi dispiace che non potranno essercene altri) e che ognuno può vedere alla luce dei nostri giorni come meglio preferisce. Le storie raccontate non sono tutte esaltanti, e l’autore nonostante l’impegno non riesce a renderle tali. Ma come spaccato della Roma neo capitale d’Italia il libro è perfetto
Voto 3/5