Rimet nel 1924

Atto di nascita di Jules Rimet

Anche se Parigi non è forse più così centrale in Europa come nel XVIII secolo, quando il detto più comune era “Se Parigi starnutisce, l’Europa prende il raffreddore”, rimane pur sempre una città che ha fatto la Storia, quella con la esse maiuscola.

Vale la pena, almeno una volta nella vita, andarci e passeggiare sul lungosenna, assieme alle visite obbligate al Louvre ed alla Tout Eiffel.

Partendo proprio da qui, ed andando verso sud per circa otto chilometri, vi imbatterete in una di quelle piccole cittadine che circondano la capitale francese, Banlieue le chiamano, che al contrario di ciò che evocano oggi (sono purtroppo sinonimo di periferie degradate e covi di fanatici religiosi), sono invece placidi paesini di provincia. Il nome di tale cittadina è Bagneux.

Il cimitero della cittadina è più grande di ciò che ci si aspetterebbe poiché, gestito dal comune di Parigi, è detto anche “cimitero degli Ebrei”, per il gran numero di cittadini parigini di quella religione sepolti la. Camminando rasente il muro orientale, vi imbatterete, dopo circa 200 metri di passeggiata tra gli alberi di Avenue du Fort, in una tomba non molto curata. E’ quella di Jules Rimet, presidente della federazione Internazionale delle Associazione di Football (la FIFA) per 33 anni, dal 1921 al 1954. Se, come noi, siete appassionati di calcio, quando passate di la lasciate un fiore ad omaggiare la persona che ha regalato al mondo le più belle pagine di questo sport.

Rimet, nato nel 1873 in una piccola città della Franca Contea, Theuley, non proveniva da una famiglia ricca. Suo padre era un commerciante meglio: un semplice bottegaio), che il giovane Jules aiutava come garzone nel tempo lasciato libero dalla scuola, dopo che ad 11 anni la famiglia si era trasferita a Parigi in cerca di un futuro migliore. É forse proprio per questa sua origine, e per le sue convinzioni politiche di stampo fortemente cristiano sociale, che Rimet ha sempre visto e pensato lo sport come un mezzo di crescita sociale della persona, e non solo come “passatempo”.

In questa visione sociale dello sport avrebbe sempre avuto come avversario Pierre de Coubertin, il Barone creatore delle Olimpiadi moderne, che al contrario di lui vedeva nel dilettantismo la via maestra della sua concezione di sport. A quasi un secolo di distanza, possiamo dire che avevano ragione entrambi: un approccio dilettantistico allo sport era possibile solo per quelle classi che, “nate bene”, non avevano necessità di lavorare, escludendo così dalla pratica la stragrande maggioranza della popolazione; il professionismo, d’altra parte, ha alla lunga portato a scorrettezze anche estreme per vincere, con tanti scandali che hanno coinvolto, e parliamo della storia recente dei primi anni del XXI secolo, la FIFA stessa.

Avvicinatosi a quel nuovo e strano sport che si giocava solo con i piedi chiamato football, nato poco più di mezzo secolo prima in Inghilterra e che da qualche decennio stava avendo un notevole successo oltremanica, Rimet decise che organizzarlo per farlo diventare un’opportunità di crescita sociale sarebbe stata la sua missione. Partendo dalla sezione calcio di una piccola polisportiva dell’entroterra parigino che egli stesso aveva fondato,  (la “Red Star”, è già il nome dava un indizio delle sue idee politiche di impronta cristiano sociale), si trovò rapidamente prima a capo della federazione francese di football e, subito dopo la guerra, a capo della FIFA.

Nonostante il successo che il football stava ormai acquisendo in tutta Europa e non solo, mai come negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra l’organismo che lo regolava a livello mondiale stava vivendo una profonda crisi: i rancori che il conflitto mondiale aveva lasciato in Europa, ed il fatto che ci fosse un far west regolamentare circa la definizione di giocatore dilettante o professionista aveva ridotto la FIFA a sole 18 federazioni affiliate, quasi tutte europee e con esclusi i maestri britannici. In quel 1921, Rimet divenne segretario della federazione dopo tre anni di “anarchia”, e rendere la FIFA un organismo veramente planetario, per non parlare di organizzare un campionato del mondo di calcio, erano obiettivi che l’istituzione aveva ormai solo sulla carta.

Ma Jules Rimet era un pragmatico, e sapeva che se si voleva portare la pratica di questo sport, emergente al punto da essere diventato un fenomeno di massa, a tutti, incluse le classi meno agiate, bisognava eliminare il finto moralismo dell’essere dilettanti e aprire le porte anche al professionismo. Riuscì così a recuperare le 4 federazioni britanniche, almeno per il momento. Era il 1924. Non parteciparono ai giochi, questo no, ma si dissero disponibili a collaborare con la FIFA. L’IFAB, l’organismo che sin dal 1886 dettava le regole del football, rimaneva però ancora saldamente in mano ai maestri di oltremanica, che avevano si ammesso la FIFA nel 1913, ma in assoluta posizione minoritaria (due i voti della FIFA, contro i due per federazione che avevano Scozia, Galles, Irlanda ed Inghilterra). Situazione che non cambierà fino al 1958.

La vetrina dove esporre il calcio a livello internazionale erano le Olimpiadi, e pur di raggiungere l’obiettivo la FIFA decise di organizzare – per la prima volta seriamente dopo le non brillantissime prime edizioni – il torneo di calcio in quella sede, non curandosi della diatriba tra chi faceva lo sport da “amateur” e chi lo praticava invece come un lavoro. Con tale torneo Rimet riuscì a far affiliare alla FIFA anche nazioni sudamericane importanti come Uruguay e Brasile, passando sopra al fatto che avessero già la loro federazione continentale, cosa che il buon Rimet non vedeva di buon occhio, tanto da opporsi alla creazione di un organismo europeo – la futura UEFA – fino a che resse il timone del football mondiale. L’UEFA, infatti, fu fondata nel 1955, l’anno dopo il suo “pensionamento”.

Certo, la distinzione tra professionismo e dilettantismo, nel caso del calcio, era molto labile: si decise che gli unici soldi da dare agli atleti delle squadre di calcio sarebbero stati dei “Rimborsi spese”, lasciando però libere le singole federazioni di deciderne l’ammontare massimo: una soluzione transitoria e non molto chiara, che non piacque  alle quattro federazioni inglesi dello “Home Championship” (il campionato che giocavano tra di loro), che parlarono apertamente di “shamateurism” (crasi tra “Vergogna” e “dilettantismo” nella lingua di Shakespeare). Se il calcio alle Olimpiadi fosse stato un insuccesso, il rischio che si potesse creare una federazione alternativa alla FIFA, basta sull’asse Inghilterra-Sud America era reale. Del resto, erano gli Uruguayani stessi a dire che se l’Inghilterra era la madre del football, l’Uruguay ne era il padre.

Ma Jules poté tirare un sospiro di sollievo: l’edizione del 1924 delle Olimpiadi, tenutasi a Parigi, vide il torneo di calcio avere un notevole successo, con la partecipazione di squadre extraeuropee come Egitto, USA e soprattutto Uruguay, fresco vincitore della Coppa America. Quest’ultimo sbaragliò la concorrenza, stupendo giocatori e spettatori con un gioco tecnico, una grinta notevole (quella che ancora adesso chiamano la “garra quechua”, la grinta dei quechua, un popolazione locale che però ha poco o punto giocato a pallone…) e soprattutto di Andrade, un centromediamo nero che venne visto all’inizio come un fenomeno da baraccone, e che invece era un giocatore di tecnica sopraffina. Per dare un’idea della sorpresa che la “celeste”, questo il soprannome della squadra uruguaiana dal colore della maglia, diede, è sufficiente raccontare questo aneddoto: il turno preliminare prevedeva l’incontro dei sudamericani con la Jugoslavia. La squadra vincente sarebbe stata poi ammessa agli ottavi di finale del tabellone principale. La neonata nazione balcanica mandò qualcuno a studiare gli allenamenti degli avversari. Sapendolo, gli uruguaiani sbagliarono apposta tutto, tanto che il rapporto degli osservatori fu “sarà una passeggiata”. Risultato: 7-0 per l’Uruguay, che in quell’edizione vinse tutte e partite subendo solo due gol.

Il successo della manifestazione e il rientrato rischio di scissione fece balenare a Rimet l’idea che fosse finalmente possibile organizzare un “Campionato del Mondo” per nazioni, sponsorizzato dalla FIFA. L’obiettivo per cui la FIFA era nata, nel 1904, poteva finalmente compiersi.

Avrebbe dato l’egida della FIFA anche al torneo olimpico, se il Comitato organizzatore delle Olimpiadi fosse passato sopra alla concezione dilettantistica per quanto riguarda il calcio, ma, come detto prima, de Coubertin da questo punto di vista era inflessibile. Nel 1928, quindi si sarebbe ripetuta la stessa formula del dilettantismo con rimborso spese al torneo calcistico olimpico.

La ripetizione del compromesso dello “shamateurism” però irritò profondamente i maestri britannici, tanto da convincerli, e stavolta per un periodo ben più lungo, al lasciare di nuovo la FIFA. Iniziava così quello “splendido isolamento” che, lungi dal confermare la supremazia britannica sullo sport che lor stessi avevano inventato, li avrebbe invece fatti retrocedere al rango di “potenza di seconda fascia”.

Non avevano tutti i torti, del resto: gli uruguaiani vincitori del torneo di Parigi rimasero lontano dalla loro nazione per oltre due mesi, ed era difficile sostenere che fossero tutti in ferie dal loro lavoro per tutto quel tempo, avendo solo dei rimborsi spese.

Il torneo olimpico del 1928 ad Amsterdam fu comunque, se possibile, un successo ancora maggiore: oltre all’Uruguay campione uscente, dal Sudamerica stavolta arrivarono altre due squadre: l’Argentina vincitrice del torneo continentale del 1927, ed il Cile. Ben sei squadre su 17 (oltre alle tre squadre sudamericane, parteciparono anche USA, Egitto e Messico) non erano europee. L’Uruguay si confermò campione sugli eterni rivali dell’Argentina. Le due nazioni che si affacciano sul rio della Plata o River Plate, in inglese, hanno sempre combattuto su tutto: dal calcio al tango. Quella finale fu, all’epoca, definita “la più bella partita del secolo”. Ottima terza l’Italia, che era nella fase iniziale del suo decennio d’oro: dopo aver perso in semifinale di misura 3-2 contro gli Uruguayani, vinse il bronzo con clamoroso 11-3 sull’Egitto.

Ancora prima dello svolgersi delle Olimpiadi del 1928, comunque, la decisione della FIFA era presa: negli anni pari alterni a quelli delle Olimpiadi, si sarebbe tenuto il Campionato Mondiale di Calcio, aperto stavolta a tutti, professionisti e no. Rimet ed il suo instancabile aiutante Delaunay, suo successore alla Federazione calcistica francese e creatore, quasi trent’anni dopo, dell’UEFA, fecero indagini presso tutte le federazioni affiliate, sia sull’eventuale creazione del torneo sia sulla sua formula, e le risposte furono positive. Nonostante quest’apertura, comunque, le nazionali britanniche continuarono il loro “splendido isolamento”. Convinte della propria superiorità, non si affiliarono alla FIFA se non nel 1950, venti anni e tre edizioni dei mondiali dopo. Possiamo dire, con ragionevole certezza, che fu un errore dai quale le quattro federazioni generatrici dell’Association Football non si sarebbero più riprese, se non a sprazzi.

Non è quindi vero che il mondiale fu deciso perché nel 1932 a Los Angeles le Olimpiadi non avrebbero previsto il calcio in quanto sport non amato negli USA. La decisione fu presa ben prima, e poi gli USA, ironicamente, proprio nella prima edizione dei mondiali, quello del 1930,  ottennero il loro miglior risultato calcistico, come vedremo. La sensazione è che invece la mancanza del calcio nel 1932, ufficialmente attribuita proprio al fatto che il calcio non era più “sport dilettantistico” fu un dispetto dell’eterna lotta tra il nobile de Coubertin ed il plebeo Rimet. Tanto più che nel 1936 il calcio era ben presente alle Olimpiadi, e con un dilettantismo molto diluito (si parlò di ipocritamente di formazioni universitarie).

Il merito quindi della creazione di quello che è l’evento attualmente più seguito al mondo è quindi da attribuire esclusivamente a Rimet ed a Delaunay. La leggenda dei mondiali di calcio era cominciata.

Il personaggio, come tutti quelli che sono entrati nella storia a tutto sbalzo, non è esente da critiche: il successo del calcio come veicolo di crescita sociale era così forte, per Rimet, da passar sopra anche alle sue convinzioni politiche: come vedremo non ebbe problemi, lui dichiaratamente cristiano sociale, ad affidare un’edizione dei campionati all’Italia fascista, che ne fece un potete strumento propagandistico, e a gestire il calcio anche nella Francia occupata dai nazisti (si dimetterà solo quando gli “boicotteranno” la sua idea di professionismo imponendo solo sette giocatori di professione per squadra).

Ma a conti fatti, ha avuto ragione lui: storie sportive immortali come Il Maracanazo, giocatori diventati icone del ventesimo secolo come Pelè e Maradona, o squadre leggendarie come L’Ungheria di Puksas, senza di lui non avrebbero avuto quella risonanza mondiale che ancora oggi fa sognare i tifosi ed ispirare gli sportivi. Il suo pragmatismo fece storcere il naso a chi prese in considerazione la sua candidatura al Nobel per la pace nell’anno della sua morte, il 1956. Ma il suo nome rimarrà per sempre abbinato comunque ad un evento di festa per l’umanità intera. Lasciatelo un fiore, su quella tomba, se potete.