Il manifesto della prima edizione dei Mondiali

La notizia sul quotidiano “El Orden” del 19 maggio 1929…

… e il trafiletto sulla Gazzetta dello Sport

Un manifesto del campionato mondiale 1930 – Notare la bandiera bulgara

La gazzetta dello sport del 6 luglio 1930 che dava per certa la partecipazione della Bulgaria

Il 18 maggio 1929 (per gli amanti della precisione era un sabato), dopo ben 25 anni di gestazione, l’obiettivo per cui la FIFA era stata fondata fu raggiunto:  fu formalmente istituita ed organizzata la prima Coppa del Mondo di Calcio.

A quale nazione assegnare quella prima edizione fu comunque una questione spinosa. Anche se le squadre britanniche erano fuori dalla federazione, e lo rimarranno fino a dopo la Seconda guerra mondiale, sembrava naturale dare tale onore a un’europea. Non solo perché il calcio era nato nel vecchio continente, non solo perché europei erano tutti i maggiorenti della federazione, ma soprattutto per una questione, potremmo dire, culturale. Nonostante i successi nelle ultime due Olimpiadi dell’Uruguay, infatti, non vi era dubbio alcuno che il calcio “vero” fosse quello europeo, che si trattasse del calcio danubiano di Hugo Meisl, di quello Italiano di Vittorio Pozzo o del nuovo “sistema” di Herbert Chapman, che proprio allora stava cominciando ad avere successo in Inghilterra visto il cambio di regola che portava, dal 1925, i giocatori a essere in fuorigioco quando avevano solo un giocatore davanti, e non più due. Ma di questo parleremo più avanti.

E poi, tutti i più prestigiosi trofei calcistici per squadre nazionali erano europei, fatta salva la “Copa America”: tutte le nazionali continentali erano allora nel pieno della prima edizione della “Coppa Internazionale”, che prevedeva incontri di andata e ritorno ed una classifica finale nel più classico dei “round robin” (o, come era stato autarchicamente ribattezzato allora dal regime fascista, “girone all’italiana”), mentre le britanniche avevano il loro “Home Championship” che consideravano come la sola vera Coppa del Mondo. Del resto, non era forse l’Inghilterra la madre del football? E quindi le altre nazioni, cosa pretendevano?

Ma come ospitanti si candidarono non solo tre europee (Olanda, Svezia e Italia), ma anche due sudamericane, Argentina e Uruguay. Dopo una breve riunione, in campo rimasero solo Italia ed Uruguay. Per l’Italia si schierò la Svezia; per l’Uruguay, l’Argentina.

A chi dare quindi l’organizzazione del primo mondiale di calcio? Mentre l’Italia nel 1929 non aveva ancora quella struttura federale definitiva che il fascismo stava dando al calcio tramite Leandro Arpinati (il primo campionato di serie A nacque proprio nell’ottobre di quell’anno), l’Uruguay era forte di notevoli argomenti sportivi e politici: aveva vinto le ultime due edizioni delle Olimpiadi (nel 1924 a Parigi e nel 1928 ad Amsterdam), avrebbe degnamente festeggiato il centenario della propria indipendenza (1830), avrebbe costruito uno stadio tutto nuovo per l’occasione, dove si sarebbero giocate tutte le partite, e soprattutto avrebbe pagato le spese di viaggio a tutte le nazioni che avessero deciso di partecipare (e fu l’unica nazione a offrirsi per questo). E poi, a leggere i verbali di quel congresso, tali argomenti furono esposti alla platea dal rappresentante argentino, la nazione storicamente rivale: il rio della Plata in questo caso univa le due rivali nel nome dell’orgoglio sudamericano.

Rimet, che sapeva quanto doveva alle nazioni sudamericane per aver reso la FIFA un organismo globale, spinse in favore dell’Uruguay (meglio ancora: di Montevideo, visto che fu l‘unico caso di Coppa del Mondo di calcio disputatasi in una sola città). Fu una decisione alla fine unanime, perché quando si vide che la preferenza per la nazione sudamericana stava montando, l’Italia ritirò, con grande scorno, la candidatura decidendo di non partecipare alla competizione, e trascinando in tale boicottaggio tutte le nazionali europee più importanti. Questo fatto porterà ad avere solo una minima rappresentanza del vecchio continente alla competizione. L’Uruguay si legò al dito tale atteggiamento, come vedremo, e non avrebbe più messo piede in Europa per le competizioni ufficiali fino al 1954.

Immaginiamoci adesso un campionato del mondo la cui sede è decisa solo un anno prima, da giocare in uno stadio che non esiste, e con una formula ancora da definire, mancando il numero certo di partecipanti. Eppure, tutto questo accadeva solo meno di un secolo fa.

Ma la piccola nazione sudamericana mise “garra” anche nell’organizzazione. Il nuovo stadio fu costruito in meno di un anno: una volta individuata la zona (nel parco Batlle al centro di Montevideo, ironicamente limitato dalla Avenida Italia), i lavori, diretti dall’architetto Juan Scasso (che fortunatamente non tenne fede al proprio cognome) cominciarono nel luglio del ’29, procedendo speditamente: 24 ore al giorno di lavoro, con tre turni di 8 ore per gli operai ed i manovali, aiutati da potenti riflettori nelle ore notturne. Lo stadio, della capacità do 90.000 posti si sarebbe chiamata “del Centenario”, avrebbe avuto una forma ovale ispirata al Colosseo, e sarebbe stato sormontato da una torre (chiamata Torre de los Homenajes , Torre degli Omaggi) alta 100 metri. Adesso è stato definito “Monumento Internazionale del football”, anche se la capienza è stata ridotta a 60.000 spettatori, e non è più “lo stadio più grande del Sudamerica” come veniva presentato allora.

Il 28 febbraio 1930 era il termine ultimo per le iscrizioni al campionato, e per la FIFA la situazione non poteva essere più fallimentare: si erano iscritte solo nove squadre nazionali, nessuna delle quali europea: le principali squadre del vecchio continente infatti (Italia, Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Svizzera) erano, come detto, nel pieno della “Coppa Internazionale”, (e Rimet, che non voleva particolarismi, si era sempre opposto a queste competizioni parziali, tanto da essere contrario anche alla creazione di organismi continentali come l’UEFA) ed erano indispettite dalla scelta dell’Uruguay come prima nazione ospitante. Del resto, tra il viaggio di andata, la competizione ed il viaggio di ritorno sarebbero passati oltre due mesi: troppi per chi, ed erano tanti, aveva impegni anche extracalcistici. Oltretutto, la crisi economica cominciata nell’ottobre del 1929 con il crollo della borsa di New York non invitava di certo a spese impegnative come una trasferta di due mesi in Sudamerica, anche se pagata.

Rimet era disperato, tanto da rivolgersi alle quattro squadre britanniche, come detto non iscritte alla FIFA, che come prevedibile rifiutarono sdegnosamente, ribadendo che per loro il campionato del mondo era l’“Home Championship”, il torneo che all’epoca disputavano Inghilterra, Scozia, Galles ed Irlanda del Nord. Interpellò anche l’Italia, fresca vincitrice della Coppa Internazionale dopo il 5-0 rifilato all’Ungheria in terra magiara grazie alla tripletta di Meazza, che neanche si degnò di rispondere. A questo, che era un boicottaggio per quanto silente, i giornali sudamericani maligneranno che gli italiani rifiutarono la partecipazione per timore di ritorsioni dovute al “saccheggio degli oriundi”, ossia il fatto che parecchi sudamericani una volta venuti a giocare in Italia vennero naturalizzati sfruttando il fatto che quasi tutti avevano antenati nati nel belpaese e poi emigrati. Polemica, questa, destinata a ripetersi, come vedremo, per le seguenti due edizioni, e che si esaurì solo dopo la fine della II guerra mondiale. Il primo torneo mondiale di football rischiava di trasformarsi in un fallimento totale.

Poi, ad aprile del 1930, il “quasi miracolo”. La Francia (patria di Rimet e Delaunay), il Belgio, la Romania (su pressioni del re rumeno Carlo II, il quale oltre a compiere scelte tecniche sulla formazione, s’impegnò a non far perdere il lavoro per i due mesi di assenza ai calciatori selezionati) ed il giovane regno di Jugoslavia accettarono di partecipare.

Doveva partecipare anche la Bulgaria, anzi addirittura fino al 4 luglio la sua partecipazione era certa, tanto che una “velina” ripresa dai giornali italiani annunciavano la partecipazione dei bulgari come certa, e un manifesto dei mondiali metteva la bandiera bulgara in bella mostra. Ma le difficoltà del viaggio e – di nuovo, l’assenza dal lavoro per più di due mesi costrinsero i bulgari a rinunciare.

Anche  Francia e Belgio avevano dovuto rinunciare ad alcuni dei loro migliori giocatori (la Francia addirittura all’allenatore) perché impossibilitati a lasciare il loro lavoro, e Romania e Jugoslavia non erano, in quel momento, squadre di “grido” (la Jugoslavia aveva giocato 36 partite in 10 anni, con il non invidiabile score di 12 vinte, 4 pari e ben 20 perse, tra cui l’umiliante 7 a zero che l’Uruguay gli rifilò alle olimpiadi del 1924; la Romania addirittura solo 24 partite), ma la rappresentanza del vecchio continente era salva.

Il 21 Giugno 1930 si partì per l’Uruguay. Il piroscafo “Conte Verde” era quanto di più lussuoso ci si potesse permettere per arrivare in Sud America. Lungi dall’avere tratte aeree (L’impresa di Lindbergh era solo di tre anni prima), andare da un continente all’altro era possibile, allora, solo per nave. Era l’orgoglio, assieme al suo gemello “Conte Rosso”, dei Lloyds Sabaudi di Genova. Quasi 19.000 tonnellate di stazza, circa 130 metri di lunghezza per 30 di larghezza, 19 nodi di velocità, avrebbe portato passeggeri ed equipaggio da Genova a Montevideo in 14 giorni. Varato nell’ottobre del 1922, aveva fatto il viaggio inaugurale nel giugno del 1923, solo 7 anni prima. Nave nuovissima, quindi. Un equipaggio di circa 450 persona trasportava 400 passeggeri in prima classe, 550 in seconda e 1.450 in terza. Triste la storia di questo piroscafo, che in soli 13 anni divenne, da simbolo di gioia sportiva e vacanziera, a relitto vittima della guerra mondiale. Sequestrato a Shangai dai giapponesi dopo l’otto settembre del 1943, fu bombardato e inabissato dai B-52 statunitensi.

Dopo essere partito da Genova il giorno prima assieme alla nazionale rumena, la nave fece il suo primo scalo a Villefrenche-sur-mer, poco oltre il confine tra Italia e Francia. Li si imbarcarono i nazionali francesi, gli arbitri europei (tra cui il belga Jean Langenus, che avrebbe arbitrato la finale) e Jules Rimet, con in una valigia la coppa che avrebbe premiato la nazionale vincitrice. Fu consegnata subito al comandante, affinché la conservasse nella cassaforte di bordo.

Creata dall’ orafo francese, Abel Lefleur, rappresentava la vittoria alata in piedi su di un basamento ottagonale, era di argento ricoperta d’oro e pesava 4 chili, di cui quasi due del giallo e prezioso metallo. Si chiamava, all’epoca, “Coppa della Vittoria”, ed ha avuto una storia travagliata, fino a scomparire definitivamente nel 1983, probabilmente fusa per farne dei lingotti. Non tutta, però! Nel 2015, il primo basamento, quello usato fino al 1950, fu ritrovato nei sotterranei della FIFA a Zurigo. Grande deve essere stata l’emozione nel riprendere quel basamento ottagonale, che recava scritti i nomi di Italia ed Uruguay (i soli vincitori, fino al 1950, del trofeo) da parte degli scopritori…

Il giorno dopo, a Barcellona, si imbarcò il Belgio (la Jugoslavia aveva preso un’altra imbarcazione), e si poteva finalmente attraversare l’Oceano: l’avventura stava per cominciare. Nessuno sapeva cosa stesse facendo, ossia inaugurare l’evento sportivo che, assieme alla finale dei 100 metri piani delle Olimpiadi, avrebbe attirato più spettatori nel mondo. Forse solo Rimet ne aveva un vago sentore. In quel momento era però solo felice per essere riuscito a realizzare il suo progetto. Così felice da osar chiedere al famoso cantante lirico Scialiapyne, a bordo anche lui, se avrebbe potuto allietare la serata dell’attraversamento dell’equatore con un concerto. Il basso, di umore non certo accondiscendente, declinò in modo brusco affermando non solo che senza il suo agente non avrebbe fatto nulla, ma che non vedeva il perché doveva regalare il suo talento gratis in quell’occasione. “Se a lei calzolaio le chiedessero di fare 12 delle sue migliori scarpe perché si passa l’equatore, cosa risponderebbe?” disse a Rimet, calcando la mano sull’origine non nobile del francese. Ma neanche tale piccolo inconveniente tolse il buon umore a Rimet. Le squadre facevano esercizi fisici sulla nave, i giocatori erano pronti e preparati per l’evento e la coppa era al sicuro. Mancavano le europee nobili, è vero, e di sicuro almeno l’Italia di Vittorio Pozzo e Meazza, o l’Austria di Hugo Meisl e Sindelar, per non parlare dei maestri britannici, avrebbero reso tale campionato veramente l’esibizione del miglior football mondiale. Ma sarebbero arrivate di sicuro, con il successo della manifestazione. E poi, comunque, erano presenti Uruguay ed Argentina, finaliste del torneo di Calcio dell’ultima Olimpiade in quella che più di uno definì “la più bella partita del secolo”, che si sarebbero date battaglia.

Otto giorni dopo la partenza da Genova, il Piroscafo arrivò a Rio, dove imbarcò il Brasile, o meglio, mezzo Brasile. Alle prese con una delle tante lotte tra i “cariocas” di Rio ed i “paulistas” di S. Paolo, infatti, nessuno di questi ultimi rispose alle convocazioni (tranne uno, tale Araken del Santos che era in rotta con la sua società. Questo implicò anche uno scalo in quella città, a dimostrazione che nella storia del calcio Santos è una predestinata). Questo, per la nazionale bianca (non ancora verdeoro), voleva dire rinunciare a giocatori del calibro del difensore Del Debbio (che sbarcherà in Italia, nella Lazio, l’anno successivo) e soprattutto di Arthur Friedenreich, il più famoso calciatore brasiliano prima di Pelé e accreditato di oltre 1220 gol: il “fenomeno” dell’epoca. Come loro abitudine, comunque, i brasiliani erano convinti della propria superiorità e, come vedremo, destinati a una delle loro tante debacle (ma attenzione: è pur sempre l’unica squadra che ha partecipato a tutti i mondiali, e quella che a oggi ne ha vinti di più: cinque).

Le squadre giunsero a Montevideo il 4 luglio 1930. Erano 13, numero “strano” per organizzare un campionato. Si escluse, da subito, la formula dell’eliminazione diretta: le nazionali che avevano fatto oltre due settimane di viaggio per andare, letteralmente, all’altro capo del mondo (ed almeno altrettante ne avrebbero dovuto fare per ritornare a casa) non volevano rischiare di essere presenti per soli 90’. Non è un caso che, mentre i mondiali del ’34 e ’38, giocati in Europa, furono a eliminazione diretta (come del resto i tornei olimpici), nel ’50 in Brasile si tornò a una formula a gironi che addirittura non prevedeva neanche la finale.

Gironi, dunque. Round robin, con le prime avrebbero poi fatto semifinali e finali (con successiva estrazione). Un girone sarebbe stato da 4, gli altri da 3. In caso di arrivo a pari punti ci sarebbe stata una partita di spareggio, mentre per semifinali e finale ci sarebbe stata la ripetizione.

Lo Stadio del Centenario, dove si sarebbero dovute giocare tutte le partite, nonostante tutti gli sforzi, non era ancora pronto. Si diede la colpa alle incessanti piogge che colpirono la nazione sul lato orientale del Rio de la Plata, ma il sospetto è che lo si volesse inaugurare, come poi avvenne, il 18 giugno, giorno esatto del centenario della costituzione Uruguayana, e con una partita della nazionale di casa. Poco male, comunque: le partite dal 13 al 17 giugno sarebbero state giocate nei due stadi delle squadre di Montevideo: il piccolo Pocitos (casa del Penarol) ed il Gran Parque Central (dove giocava del Nacional). Quest’ultimo, edificato nel 1900 e tuttora esistente, è uno dei più antichi stadi ancora funzionanti. Per dare un’idea del periodo, in quello stadio solo 10 anni prima ci fu un duello tra Josè Batlle Y Ordones, ex presidente della nazione rioplatense (proprio quello cui fu dedicato il parco dove stava sorgendo lo stadio Centenario) e Washington Beltrán, deputato dell’opposizione e giornalista del quotidiano El Pais di Montevideo. Un duello con pistolettate da 25 passi, terminato con l’uccisione del giornalista da parte del presidente. Fatte le debite proporzioni, immaginiamoci un duello a San Siro tra Renzi e Travaglio a colpi di pistola…

Le fasce per il sorteggio – che si effettuò il 7 luglio, solo una settimana prima dell’inizio del torneo, furono così composte: una di europee, una composta dalle squadre “forti” dell’epoca, ossia Uruguay, Brasile, Argentina ed – inspiegabilmente con gli occhi di oggi – gli USA, che fino ad allora avevano giocato solo 11 incontri ufficiali (ma vedremo che forse un motivo c’era), una composta dalle restanti sudamericane ed infine il Messico.

Fu L’argentina a trovarsi nel girone da 4, assieme a Francia, Cile e Messico. Il secondo girone – quello del Brasile – fu con l’incognita Jugoslavia e la cenerentola Bolivia (che ancora doveva vincere la sua prima partita ufficiale). C’era poi il terzo girone, con i padroni di casa, la Romania ed il Perù, ed infine quello con USA, Belgio, e Paraguay. Questi giorni ed incontri:

Si nota subito la stranezza nel girone A: l’incontro tra Francia e Messico si sarebbe giocato il 13 luglio, invece che il 22, assieme ad Argentina Cile. Il motivo di tale anticipo fu una richiesta della stessa Francia: avrebbe voluto esordire il 14 luglio, festa nazionale della repubblica transalpina, ma questo era impossibile, e non tanto perché i due stadi fossero già impegnati con altre partite (all’epoca si giocavano due partite, anche consecutive, nello stesso stadio), quanto perché il 15 era in programma Argentina-Francia (esordio dei sudamericani), e giocare due partite in due giorni sarebbe stato troppo. Si decise quindi di anticipare la partita al 13. Alla fine, per i francesi, tra fuso orario e tempo di trasmissione del risultato, sarebbe stato comunque il 14.

Acquazzoni e grandine si alternavano a squarci di sole, con temperatura abbondantemente sotto lo zero. (quello fu un inverno particolarmente freddo, in Sudamerica), e le squadre europee avevano avuto solo 10 giorni per acclimatarsi. Il match di apertura fu tra Francia e Messico, giocato il 13 luglio 1930 in contemporanea con USA-Belgio, e finì 4-1 mentre nevicava blandamente. Rimet o chi per lui avrebbe dovuto tenere in considerazione il fatto che a luglio, nell’emisfero australe, è inverno inoltrato. Lucien Laurent, mezz’ala francese, ebbe l’onore di segnare con un bel destro da poco fuori area il primo gol della storia dei mondiali (gli USA avrebbero segnato dopo). Secondo le cronache, non fu una gran partita. Fu dominata dai Francesi, che senza strafare ebbero ragione della squadra in amaranto – l’allora colore delle maglie dei messicani. Va detto che il Messico non aveva, all’epoca, praticamente nessuna storia calcistica: era alla sua prima partita da affiliato alla FIFA, alla sua terza ufficiale (le altre due erano state un 7 a 1 ed un 3 a 1 rimediati da Spagna e Cile alle Olimpiadi di Amsterdam) ed alla sua nona partita complessiva: le prime sei erano state tutte amichevoli con il Guatemala. Ma il tifo dei giornali sudamericani era tutto per il Messico. Alla fine del primo tempo il portiere francese Thepot si infortunò e, non essendo previste sostituzioni (non lo saranno per i giocatori di movimento fino al 1966) fu sostituito da Capelle. Si era già sul 2 a 0. Il primo tempo avrebbe visto il 3-0 della Francia, e la ripresa un gol per squadra. Insomma, per la Francia un bel modo di celebrare la loro festa nazionale, in attesa del big match con l’Argentina di due giorni dopo.

Nell’altra partita, gli USA sfruttavano i britannici d’importazione (tra cui sei professionisti di origine scozzese) che erano americani a tutti gli effetti grazie al successo della lega del Soccer Della costa Est, chiusa l’anno prima ma che aveva portato il calcio a essere famoso nell’America del Nord. Probabilmente per questo furono nominati teste di serie: con merito, comunque, poiché vinsero 3 a 0 questa partita d’esordio. I Belgi erano dati per favoriti, ed in effetti le cronache parlano di un inizio arrembante degli europei che però, a poco a poco, vengono neutralizzati dagli statunitensi che passano al contrattacco. Il minuto del primo gol, stranamente, è incerto. Dal tabellino della FIFA risulta essere McGhee al 23’, mentre per le cronache dei quotidiani dell’epoca il punteggio fu sbloccato da Florian al 39’, con McGhee che realizzò il 2-0 quattro minuti dopo. Il secondo tempo, che vide peggiorare le condizioni atmosferiche, fu meno intenso, con gli USA stabilmente in controllo del gioco ed in grado di realizzare il 3-0 con il loro asso Patenaude. La partita finì e i calciatori a stelle e strisce festeggiarono sul campo: una bella soddisfazione, quasi un canto del cigno per il soccer USA, dopo la chiusura della lega calcistica dell’Est per la crisi economica ed i dissapori con quella della costa del pacifico.

Il giorno dopo altre due partite, sempre nei due stadi “satelliti” del Nacional e del Penarol. Ma se una portò alla prima sorpresa del torneo, con la Jugoslavia che sconfisse il Brasile per 2-1, la seconda (Romania Perù) fu – in assoluto – la più brutta e la meno seguita di tutte le edizioni dei mondiali. Iniziavano, con questi due match, anche gli altri due gironi. A differenza del giorno prima, però, le due partite furono giocate a distanza di due ore, secondo la FIFA. I quotidiani riportano invece le 15 come orario per tutte e due le partite, e noi tendiamo, come nel caso dei gol degli USA, a dar credito a tale versione.

Nel primo match la selezione brasiliana, che indossava la maglia bianca “Classica” (quella verdeoro arrivò solo nel 1952), era come detto composta quasi esclusivamente da giocatori carioca con un solo calciatore proveniente dal campionato paulista, l’attaccante Araken del Santos (in rotta con la società e considerato comunque un traditore dai suoi). La star era il capitano Preguinho, capace con il suo Palmeiras di primeggiare in tutte le 8 discipline della polisportiva. O Globo titolava in maniera supponente “La selezione brasiliana si lancia oggi, nel campo di Montevideo alla conquista della prima tappa per una grande vittoria del campionato mondiale di calcio!”. Ma la Jugoslavia, forte dei suoi giocatori richiamati dal campionato francese, era ben organizzata e, dopo un’iniziale sfuriata brasiliana, trafisse i supponenti brasiliani due volte nella prima mezz’ora. Inutile il gol di Preguinho nel secondo tempo, dove il portiere Jaksic riuscì, secondo le cronache, a parare l’impossibile, ed una traversa negò il pareggio ai sudamericani. Immediate tragedie ed infinite polemiche investirono il Brasile, e, da allora, ogni volta che non vincono un mondiale ripetono tali scene. Qualcuno ha detto che i Brasiliani dividono i mondiali in due gruppi: quelli che hanno vinto e quelli che non hanno ancora capito come hanno fatto a non vincere. Nel caso specifico, l’assenza dei paulisti, in particolar modo della stella Friedenreich, fu vista da questi come la dimostrazione di essere “indispensabili”, e dai cariocas come un tradimento, tanto che accusarono i “rivali” addirittura di aver esultato alla sconfitta. “O Estadao de S. Paolo”, un quotidiano sportivo Paulista, rispose per le rime pochi giorni dopo: “A tutti quelli che hanno pensato che i paulistas hanno gioito alla sconfitta di domenica (ed era lunedì! È incredibile come fossero pressappochisti anche i giornali sportivi, all’epoca ndr) della squadra approntata dalla confederazione Brasiliana (anche qui: notare l’assenza del termine “nazionale” ndr). Ancora non sappiamo quali saranno le ripercussioni di questa debacle a Rio, per quanto ci aspettiamo l’atteggiamento della critica che ci tratterà non in maniera amichevole. (…) I Nostri avversari (sic!) erano da lungo tempo coscienti del male che avevano fatto, e così avevano messo le mani avanti accusando i paulisti per ogni possibile disastro, paulisti lasciati fuori dalla Nazionale (qui, dove c’erano loro, il termine è usato ndr) per un riprovevole affronto del presidente federale”. Questi erano gli animi brasiliani dopo una sconfitta… la Jugoslavia era invece felice, aveva già un piede e mezzo in semifinale ed era tifata dagli uruguayani.

Il terzo girone era quello con i padroni di casa, la Romania ed il Perù: e furono proprio queste due squadre ad affrontarsi per prime. L’Uruguay voleva giocare nello Stadio del centenario, e poi non saranno state sicuramente queste due “squadrette” a fermarlo. Tanto valeva farle combattere subito per il secondo posto del girone. La partita fu estremamente cattiva, con molti colpi proibiti dall’una e dall’altra parte. Steiner uscì quasi subito per una botta che fece temere la frattura della gamba. Si era comunque già sull’1-0, frutto del gol lampo di Desu. Al 70’ ci fu la prima espulsione della storia dei mondiali: il peruviano Placido (sic) Galindo fu espulso per “somma di falli cattivi”, anche se proprio quello che causò il rosso non fu cattivo, anzi, secondo alcune cronache non ci fu proprio fallo. Lo stesso Galindo la pensava così, tanto da protestare per ben 10 minuti prima di uscire, costretto dal massaggiatore. Il Perù riuscì, in uno sforzo immane, a pareggiare al 75’, ma i rumeni segnarono il 2-1 quattro minuti dopo, per poi mettere “in cassaforte” il risultato a un minuto dalla fine. Cronache concordi nel definire il match poverissimo tecnicamente. Del resto, solo 2.500 spettatori (minimo storico per i mondiali) vorranno pur dire qualcosa.

Il 15 luglio si giocò Argentina-Francia. Gli stanchi francesi (che dovettero subito rinunciare di nuovo al portiere Thepot, sostituito di nuovo da un giocatore di movimento) subirono la fisicità ai limiti dell’aggressione degli argentini, con Monti che azzoppò il povero Laurent. L’albiceleste (soprannome degli argentini, dal colore della loro maglia) passò comunque solo a 10’ dalla fine, grazie a una punizione di Monti stesso dai 25 metri. La Francia si ributta all’attacco alla ricerca del pareggio e dopo aver fallito un’occasione con Maschinot (autore di una doppietta col Messico), ha l’opportunità di pareggiare quando l’ala Langiller entra in area ed è pronto per tirare ma l’arbitro – brasiliano – fece un qualcosa che con gli occhi di oggi ha dell’incredibile: fischia la fine della partita, ed era l’84′, sei minuti prima! Si accorse dello sbaglio solo 30 minuti dopo e richiamò i giocatori, che erano già a lavarsi e cambiarsi. La partita però non cambiò risultato. Il giorno dopo il Cile esordì contro il Messico, strapazzandolo per 3-0 con doppietta di Vidal (nessuna parentela nota col campione di questo periodo) ed autorete.

Il 17 luglio la Jugoslavia incontrò la Bolivia in condizioni proibitive: il termometro segnava 10 gradi sotto zero. La simpatica squadra latinoamericana si presentò con le undici magliette ognuno con una lettera (all’epoca i numeri non esistevano) a comporre la scritta “Viva Uruguay” in onore dei padroni di casa ma il fatto che non avesse mai vinto, come nazionale, una partita ufficiale emerse subito: fu seppellita per 4-0 dagli europei che centrarono così la semifinale, così come, lo stesso giorno, gli USA, che ripeterono il 3-0 della prima partita anche contro il Paraguay (e ci fu la prima tripletta della storia dei mondiali, a opera di Bert Patenaude). Lo stadio “dei mondiali” doveva essere ancora inaugurato, e già due squadre erano certe delle semifinali.

Ed eccoci finalmente all’esordio dei padroni di casa: lo Stadio del Centenario era terminato nella notte tra il 17 ed il 18 luglio (giorno della gara) tanto che alcune parti in cemento ancora fresco erano state usate per delle scritte (abitudine vecchia quanto i graffiti preistorici) che dicevano cose da “Giovanni ama Linda” (e siamo pudici nel riportare solo le scritte riferibili) a “Uruguay Campione”. Ecco, quest’abitudine non è cambiata affatto… Per farla breve: la celeste (soprannome della nazionale uruguaiana, sempre dal colore delle maglie) vinse per 1-0 con gol di Castro (un attaccante tutto fisico e niente tecnica privo della mano destra, persa per un incidente con una sega) e ci fu, nonostante il fossato che separava gli spalti dal campo, la classica invasione con il povero arbitro Langenus costretto a ritornare, assieme ai guardialinee, in albergo con la divisa da arbitro girando due ore a piedi per Montevideo.

Dopo l’inaugurazione, il 19 giugno si giocarono nello stadio altre due partite (in rapida successione: le cronache riportano alle 13.00 ed alle 15.00, altra cosa oggi impossibile). Nella prima partita il Cile ebbe ragione di una Francia difensivista vincendo per 1-0, mentre in quella successiva l’Argentina strapazzò il Messico per 6-3. L’arbitro era il CT della Bolivia Saucedo (che sarà anche guardialinee della finale: del resto anche il CT rumeno fece l’arbitro. Altri tempi…) che fischiò il primo rigore del torneo (e della storia dei mondiali). Secondo il belga Langenus, che avrebbe poi arbitrato la finale, Saucedo di rigori ne fischiò cinque, di cui tre quantomeno dubbi, ma ne fu segnato uno solo, anche perché nello stadio appena costruito il dischetto del rigore era a 14 metri dalla linea di porta, e non agli undici regolamentari. Ma nei tabellini di rigori a noi ne risultano solo due, e possiamo quindi derubricare i cinque rigori a semplice diceria, anche se dell’arbitro che fischierà la prima finale di coppa del mondo. Altra cosa notevole fu la tripletta di Guillermo Stabile, che sostituiva il capitano argentino Ferreira (tornato in patria per sostenere un esame di giurisprudenza), conquistandosi così un posto “stabile”, appunto, da titolare. Sarà alla fine capocannoniere del torneo con 8 reti. Il primo di tanti campioni che, poco considerati all’inizio dei campionati, avranno fama e gloria grazie a questi.

Il 20 luglio due partite inutili, visti i risultati di USA e Jugoslavia: il Brasile sconfisse la Bolivia per 4-0 con doppietta di Preguinho, mentre il Paraguay sconfisse il Belgio per 1-0.

Rimanevano due partite da giocare, che avrebbero deciso le altre due semifinaliste: il 21 l’Uruguay vinse facilmente 4-0 contro la Romania, con tutti i gol nel primo tempo. I padroni di casa erano quindi in semifinale.

Il giorno dopo, La partita Argentina Cile, con entrambe le squadre a 4 punti (si assegnavano due punti per la vittoria ed uno per il pareggio, come è stato fino all’edizione del 1990), diventava decisiva per il passaggio del girone: l’arbitro Langenus (sempre lui designato per le partite complesse) si rese traumaticamente conto di cosa voleva dire il calcio in Sudamerica: alla doppietta iniziale di Stabile i cileni risposero accorciando le distanze su papera del portiere argentino (e si dice che l’allenatore rispose alle scuse dell’estremo difensore, che si lamentava del sole in faccia: “Ed allora ti farò giocare solo di notte, se non rimani accecato anche dalla luna!”). Il gioco si incattivì e Monti, sempre più killer, al 43’ fece un’entrata assassina che provocò una reazione così scomposta sia in campo sia sugli spalti da richiedere l’intervento della polizia uruguagia a cavallo. Fissato il risultato nel secondo tempo sul 3-1 alla fine della partita i cileni dopo tutta quella lotta… si complimentarono sportivamente con gli argentini, giustamente semifinalisti.

Come voleva la prassi, l’estrazione per le semifinali, da giocarsi il 26 e 27 luglio, diede all’Argentina gli USA e all’Uruguay la Jugoslavia. Tutto sembrava (sembrava…) preparato per l’ennesima “rivincita” tra le due nazionali del Rio della Plata.

In Argentina-USA dopo 10’ Monti aveva già mietuto la sua vittima e gli USA giocarono in 10 per il resto della partita. Il primo tempo si concluse solo 1-0 per i sudamericani, ma nel secondo l’albiceleste dilagò fino a imporsi per 6-1, con altra doppietta di Stabile. La leggenda narra che per soccorrere un giocatore infortunatosi nel secondo tempo, il massaggiatore USA correndo fece cadere una boccetta di cloroformio che lo addormentò di colpo, suscitando le risate del pubblico. Ma anche in questo caso, riscontro effettivi non se ne hanno.

Identico punteggio, strano a dirsi, il giorno dopo, nella seconda semifinale Uruguay e Jugoslavia, che però passò in vantaggio per prima. Tuttavia, già al 20’ i padroni di casa erano in vantaggio 2-1, che poi dilagarono con una tripletta di Cea, il loro attaccante di punta.

I sette gol nelle due semifinali furono un record per tali partite fino al 2014 ed al “minierazo” che vide il Brasile Sconfitto dai tedeschi per 7-1.

La Jugoslavia, a quanto pare, protestò tanto per l’arbitraggio della semifinale, soprattutto per un gol annullato per fuorigioco dubbio sul 2-1 per l’Uruguay, e si rifiutò, stando a talune fonti, di giocare la finalina per il terzo e quarto posto, unico caso della storia dei mondiali. Secondo altre fonti però, la finalina non era proprio prevista tanto da dare il terzo posto ex aequo alle due nazionali, USA e Jugoslavia. In realtà la versione più accreditata è proprio quella dell’ex aequo, tanto che fino al 1986 la FIFA definiva così le due nazionali. Poi, in quell’anno, decise definitivamente l’assegnazione del terzo posto agli USA (loro miglior risultato ai Mondiali finora) ed il quarto alla Jugoslavia (miglior prestazione ai mondiali anche la loro, uguagliata nel 1962, anche se la Croazia – all’epoca parte della Jugoslavia – è arrivata seconda nel 2018). Se è così, l’unica possibile ragione, visto che le semifinali terminarono con l’identico punteggio, sta nella differenza reti nel girone: il gol che Preguinho fece alla Jugoslavia sancì la medaglia di legno per la nazionale europea, peggior risultato dell’Europa ai mondiali.

Ed eccoci al gran giorno della finale: il 30 luglio 1930. Si ebbe una fitta nevicata la notte prima (la partita era prevista alle 14), e dalle immagini si vede in effetti il campo coperto di neve. I cancelli furono aperti alle 8 e lo stadio si riempì immediatamente: era la ripetizione della “partita più bella del mondo” del 1928, e gli Argentini volevano, anzi pretendevano, la rivincita. Era comunque l’affermazione del calcio del Rio de la Plata, il fiume che divideva le due nazioni, l’enorme Argentina dal minuscolo Uruguay. L’incontro fu fonte di notevole impegno da parte delle forze di Polizia di Montevideo. Dall’Argentina furono richiesti 30.000 biglietti, ne furono concessi solo 20.000, ma dalle navi furono scaricati fino a 40.000 argentini per la finale. Le perquisizioni all’ingresso furono minuziose (gli argentini lamentarono che furono minuziose solo con loro) e fu sequestrato un vasto arsenale: petardi, coltelli, revolver. Nell’estrema tensione del pre-partita si inserisce anche il solito episodio farsesco: ben 13 persone si presentarono allo stadio affermando di essere l’arbitro e furono rimandate indietro, tanto che quando il belga Langenus, designato per la finale solo poche ore prima, si presentò veramente, non fu creduto e venne persino fermato dalla polizia. Fu fatto entrare solo dopo una minuziosa perquisizione delle valigie. L’incontro inizierà infatti con un’ora e mezza di ritardo.

Langenus del resto aveva accettato la designazione solo a patto della stipula di un’assicurazione sulla vita, l’assistenza di circa 100 poliziotti e la disponibilità di un piroscafo che sarebbe partito con lui a bordo per l’Europa un’ora dopo la fine della partita.

Gli scontri tra le opposte tifoserie sugli spalti cominciarono molto presto, ed a mezzogiorno lo stadio era già stracolmo dei 93.000 spettatori paganti, ovviamente gran parte in piedi. La nazionale di casa, però, aveva altro cui pensare: il centravanti Anselmo si rifiutò di giocare, i maligni dicono per paura delle “carezze” di Monti. Fu sostituito da Castro, il “Hrubesch senza la mano destra” autore del gol che garantì la vittoria contro il Perù.

Se Atene piangeva, comunque, Sparta non rideva di certo: Monti, minacciato ed insultato in ogni modo (anche telefonicamente, e siamo nel 1930) non voleva giocare, fu convinto solo da due dirigenti della sua squadra, il San Lorenzo, fatti venire appositamente. Nel 1974, Maestrelli e Chinaglia ripeteranno l’aneddoto.

Prima di iniziare sorse l’ennesima diatriba: con quale pallone giocare? Quello portato dagli argentini (un numero 4) o quello degli uruguaiani, dal cuoio più spesso e pesante (numero 5)? Langenus e la FIFA furono salomonici (non vogliamo dire democristiani): il primo tempo si sarebbe giocato col pallone argentino, il secondo con quello dei padroni di casa.

Pur avendo entrambe le squadre il classico schieramento di allora (il 2-3-5, o piramide rovesciata) il gioco fu impostato subito all’attacco dagli argentini con la celeste che sfruttava le ripartenze (anche se allora non si chiamavano così). Ed al 12’ infatti l’Uruguay è in vantaggio: Castro passa a Dorado in profondità che dalla destra fa partire una botta che non lascia scampo a Botasso. Ma gli Argentini non ci stanno: al 20’ azione Monti-Stabile-Ferreyra che serve Peucelle, il quale trafigge Ballestrero, non incolpevole. E non finisce qui: l’Uruguay è frastornato, ed al 37’ un lungo lancio di Monti raggiunge Stabile che anticipa il portiere e con un tocco preciso mette la palla in rete per l’ottava volta nella competizione, dando il vantaggio all’Argentina. Il primo tempo finisce così, 2-1 per l’abiceleste, con i 20.000 tifosi argentini che spingono con le loro urla la squadra verso il gol della sicurezza, e la difesa uruguaiana a far muro.

Ma nel secondo tempo si cambia pallone, ed anche musica: al 57’ torre di Scarone per Cea e tiro imparabile: è il pareggio. Andrade, il talentuoso giocatore di colore che tante risate aveva suscitato in Europa (dove un nero che giocava a pallone veniva considerato quasi un fenomeno da circo, ed era invece di classe sopraffina) comincia a mostrare il suo gioco di qualità, e l’Argentina, incapace di far filtro a centrocampo, votata sempre all’attacco e con un pallone non suo (altra cosa che adesso fa sorridere, ma non scordiamoci che si parla di solo tre generazioni fa) comincia a soffrire seriamente. Al 68′ Mascheroni per Iriarte che finta il passaggio ed invece tira nel sette: L’Uruguay è in vantaggio! Lo stadio del Centenario impazzisce. Gli Argentini si ributtano in avanti, rischiano di pareggiare con Varallo ma Andrade salva sulla linea di porta, ed in contropiede, all’ultimo minuto, l’Uruguay blinda la finale: Castro, di testa, insacca un cross di Dorado. 4-2 e partita finita. Langenus scappa, ma non riesce a partire: troppa nebbia per far lasciare il porto alla nave.

La prima coppa del mondo è celeste, e la gioia può scorrere libera per Montevideo. L’Argentina perde la testa dopo aver perso la partita, e rompe addirittura i rapporti diplomatici a livello calcistico con i neocampioni del mondo per parecchi mesi. Come beffa finale Monti, insultato durante il torneo per la sua violenza, fu preso in giro dopo la finale con l’accusa di essere un coniglio, quando la notizia della sua “paura di giocare” divenne pubblica.

Così finì il primo campionato del mondo, l’unico senza turni preliminari, e con solo la fase finale.

Un cenno su alcuni degli eroi della partita: Stabile fu conteso da parecchie squadre in Europa, lo prese il Genoa dove esordì con una tripletta ma ebbe dopo poco una rottura del perone che gli fece terminare la carriera ad alti livelli anzitempo. Monti, naturalizzato italiano, avrebbe vinto dopo 4 anni quel mondiale sfuggitogli in Uruguay. Castro morì a soli 55 anni, nel 1960 per un attacco di cuore: aveva appeno dovuto dire addio alla guida tecnica della nazionale per i suoi problemi di salute.