Anche in questa occasione la “Grande anima” non abbandonò i metodi che lo avevano contraddistinto: la non-violenza, la resistenza passiva, il digiuno e il rifiuto d’obbedire alle leggi sbagliate. Ad accompagnarlo nella crociata c’erano altre 78 persone, ma presto lo seguirono in migliaia. Tanto che, quando all’esercito venne chiesto di sparare sulla folla, gli ufficiali si rifiutarono. La marcia si concluse con l’arresto di più di 60mila persone, tra cui Gandhi, condannato a 6 anni, la moglie e molti membri del Congresso (tanto da mettere in difficoltà il sistema carcerario anglo-indiano che non aveva posti a sufficienza), ma l’opinione pubblica si schiererà a favore dell’indipendentismo indiano.
Nel 1931 si giunse finalmente a un accordo, con cui il Governo britannico modificava le leggi sul monopolio del sale ne legittimava la raccolta per uso domestico, riconosceva il diritto degli indiani a non utilizzare i tessuti del Regno Unito e liberava i detenuti politici. Gandhi si impegnava da parte sua a sospendere il movimento di disobbedienza civile e si recava a Londra per parlare con il presidente del consiglio, il laburista Ramsay McDonald, sperando inutilmente di ottenere altre concessioni.
Ghandi fu anche il protagonista dell’indipendenza del Paese, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Propose uno stato unitario e laico, nel quale fosse possibile la convivenza tra le etnie indù e musulmane. La richiesta fu accettata dal governo inglese, e nel 1947 nacquero due Stati: l’Unione Indiana (indù) e il Pakistan (musulmano). La creazione di queste due realtà portò a scontri che assunsero le dimensioni di una vera e propria guerra civile, con la morte di circa 100.000 persone, e continuarono anche negli anni immediatamente successivi. Gandhi stesso cadde in quel clima di odio e violenza che si era generato: accusato di essere troppo condiscendente verso i musulmani, fu ucciso da un estremista indù, Nathuram Godse, il 30 gennaio del 1948, mentre si recava a una preghiera.