Il corpo di Alberto viene sbalzato a quindici metri di distanza. Muore all’istante per sfondamento del torace, schiacciato sotto una Ferrari 750. È il 26 maggio 1955. Trent’anni prima, sempre il 26, ma di luglio, era toccato al padre, anch’egli pilota. Vittima di un incidente automobilistico a Montlhery, in Francia, Antonio Ascari era morto il 26 luglio 1925, a 36 anni.
Un giorno maledetto, il 26. Il figlio non riesce a spezzare il filo di un destino fatale. Il 26 maggio 1955 Alberto ha 36 anni, è cinque volte campione d’Italia, due del Mondo e ha già corso al volante di Alfa Romeo, Maserati, Ferrari e Lancia. Ha vinto numerosi trofei, tra cui la Coppa “Trofeo Nuvolari” della Mille Miglia del 1954, la Coppa vinta al Nurburgring il 29 luglio 1951 su Ferrari 375 F1 e la Coppa conquistata a Silverstone il 20 agosto 1949 su Ferrari 125 F1.
Per fare tutto ciò ha sfidato e combattuto tenacemente la resistenza materna, cominciando dalle corse a Monza, pagate con il vocabolario di greco che lui vende. La madre glielo ricompra svariate volte, pensando che siano i compagni di scuola a rubarglielo, finché non scopre tutto e lo lascia fare, rassegnata. L’istinto, la passione, il Dna. Irresistibile. Alberto Ascari, nato il 13 luglio 1918, a soli sette anni, proprio quando rimane orfano, decide che seguirà le orme paterne e nel 1936 inizia con le corse motociclistiche. Il debutto su quattro ruote è del 1940. Diventa un pilota automobilistico. Talentuoso. Fa vincere alla scuderia del cavallino nel 1952 il primo titolo iridato della sua storia. Sempre al volante Ferrari conquista il secondo campionato del mondo, l’anno successivo, in un testa a testa con l’argentino Juan Manuel Fangio su Maserati e con Nino Farina (sempre sulla “rossa”).
Il 26 maggio 1955 Ascari è nella sua casa di Milano, con la moglie Mietta. Gli amici e piloti (e colleghi, dall’anno precedente, nella nuova avventura con Lancia che si ritirerà dall’agonismo subito dopo la morte di Ascari), Luigi Villoresi e Eugenio Castellotti, lo chiamano a Monza: stanno testando una nuova Ferrari 750. È un giovedì, ora di pranzo. La domenica si corre il Gran Premio Cortemaggiore per prototipi. Alberto è arrivato all’autodromo. Si fa prestare la Ferrari da Castellotti per farci qualche giro e anche l’equipaggiamento, lui è in giacca e cravatta. Senza i suoi indumenti, il suo casco, i suoi guanti. Abdica a tutte le abitudini scaramantiche: una fra tante, non prendere mai in mano un volante il giorno 26. Soprattutto dopo che anche l’amico Silvio Vailati era morto il 26, nel maggio del 1940, in una corsa a Genova.
Dopo tre giri, si sente un boato. Nessuno lo vede, nessuno sa cosa sia accaduto. Si sa che è uscito come un siluro da una curva del circuito, la curva del Vialone (o del Platano, oggi Ascari) che poi, da quel giorno, prenderà il suo nome. È morto sul colpo, sotto il peso della vettura. Gli amici sono increduli. Sull’asfalto c’è il segno di una frenata, inspiegabile. Forse un malore, forse una manovra maldestra, forse semplicemente il destino cui era sfuggito a Montecarlo e che lo aveva seguito a Monza.
Il rocambolesco incidente era accaduto solo quattro giorni prima, durante il Gran Premio di Monaco, domenica 22 maggio: Ascari, alla guida della Lancia, è secondo e sta cercando di superare la Mercedes di Moss, che lo precede. All’ottantunesimo giro, Moss abbandona improvvisamente la gara a causa di un problema al motore. Ascari non lo sa e continua a correre. Accelera fino all’uscita del tunnel, si distrae perché vede il pubblico esultante. Perde il controllo dell’auto, sfonda le barriere e vola in mare, nel porto.
Ascari si libera dalla vettura finita dieci metri sotto l’acqua del Mediterraneo e ne esce quasi incolume (solo una frattura al naso). È illeso, ma forse sotto choc, nonostante si rallegri della sua capacità di subacqueo. Un presentimento gli vela lo sguardo nei giorni seguenti. Ha paura di subire il destino del padre. L’ha sempre avuta. Forse sarebbe bastato, a salvarlo, non tradire quell’istinto di sopravvivenza che gli imponeva di non mettersi al volante il 26. Per nessun motivo. Nemmeno per la chiamata di due cari amici.