Il 13 giugno 1946, Umberto di Savoia, secondo del nome come regnante italiano e quinto come dinastia familiare, lascia l’Italia partendo dall’aeroporto di Ciampino. Non vi farà mai più ritorno. Un esilio, quello dei Savoia, fatto subire forse al meno colpevole della casata. Ciononostante, inevitabile. 

I Savoia avevano ottenuto, grazie all’abilità politica di Cavour, militare di Garibaldi e a una buona dose di fortuna, un regno enorme, sproporzionato persino rispetto ai loro obiettivi.

Ma se Vittorio Emanuele II questa fortuna non solo se la meritò, ma la aiutò anche, Umberto I e, in maniera particolare, il figlio Vittorio Emanuele III gli voltarono le spalle. Umberto giustificando la politica più retriva e conservatrice, tanto da far sparare sulla folla, e re pippetto avallando venti anni di fascismo, di provazione delle libertà politiche, di leggi razziali, di una guerra scellerata.

Vittorio Emanuele III fu l’autore del patto di Londra durante la Grande Guerra, dove l’Italia cambiò bandiera improvvisamente, e anima dell’armistizio di Cassibile dell’otto settembre 1943. Due episodi che non hanno fatto fare una bella figura alla nazione, che troppo spesso si identificava con la monarchia, ai loro occhi.

Umberto II di tutto questo era responsabile solo come diritto di sangue e per aver goduto comunque di privilegi durante il ventennio. Ma quel pochissimo che poteva fare per opporsi allo schifo della seconda guerra mondiale – e che sua moglie fece – evitò di compierlo. Con la fuga assieme al padre da Roma a Pescara dopo l’armistizio, la monarchia era condannata.

Poco importa se il referendum del 2 giugno rivelò – da questo punto di vista – un’Italia spaccata in due. Umberto non era più il simbolo della nazione. E il suo atteggiamento sul risultato di quella votazione (prima parlando di brogli, poi appellandosi ai “voti validi”) non fu comunque da monarca.

Lo fu l’esilio, però.