Le prime elezioni politiche dopo il crollo della prima repubblica vedono il successo – anche se non un trionfo – di una coalizione di centro-destra, il cui perno trainante è il neonato partito Forza Italia, alleato con la Lega Nord (al nord, sotto le insegne del Polo delle Libertà) e con Alleanza Nazionale (al centro e al sud, con il Polo del Buon Governo). Leader indiscusso della coalizione è l’imprenditore milanese Silvio Berlusconi, ‘sceso in campo’ solo il 26 gennaio del 1994 con un messaggio televisivo registrato. Il 10 maggio seguente – dopo un travagliato processo di mediazione tra Fini e Bossi, e con l’ausilio, al senato, di parte del partito di Segni corso in soccorso del vincitore (altrimenti non avrebbe avuto i numeri nella camera alta), Berlusconi vara il suo primo governo, che nella storia dell’Italia repubblicana è il primo che include la presenza di esponenti dell’ex Movimento Sociale Italiano. Attivo nell’edilizia e nell’editoria, Berlusconi è padrone di tre reti televisive nazionali. Nei mesi che precedono le elezioni molti attori del gruppo esprimono il loro sostegno politico a favore dell’editore, sfruttando trasmissioni e spot che vanno in onda sulle reti commerciali dello stesso Berlusconi.

In risposta alla presenza del partito post fascista, il 25 aprile 1994 Il quotidiano Il Manifesto rilancia la partecipazione alla celebrazione nazionale della Liberazione organizzata a Milano. Oltre centomila cittadini sfilano intasando il centro della città, sotto una pioggia incessante. Il comizio finale vede una piazza Duomo gremita di bandiere della sinistra e di simboli dell’antifascismo, mentre ancora decine di migliaia di partecipanti non riuscivano a raggiungere la piazza, completamente congestionata dall’afflusso di manifestanti arrivati da tutto il paese. Ad un mese dal successo elettorale della destra di Berlusconi si tiene una delle più partecipate manifestazioni per la celebrazione del 25 aprile nella storia dell’Italia recente.

Ma Berlusconi è al governo per ben altri motivi: 13 luglio 1994 Il governo vara il decreto Biondi, che abolisce la custodia cautelare limitandola ai casi di omicidio e ai reati associativi (mafia, terrorismo). Il provvedimento, ribattezzato poi ‘decreto salva-ladri’, aprirebbe le porte del carcere per molti degli imputati delle inchieste di Tangentopoli.

I principali magistrati del pool milanese che ha animato la stagione di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, chiedono l’assegnazione ad altro incarico nel corso di una conferenza stampa tenuta presso la Procura della Repubblica di Milano. Il marciapiede su cui si affaccia l’ingresso principale del Palazzo di Giustizia ospita la manifestazione spontanea di un gruppo di cittadini, che protestano in solidarietà con i magistrati e contro il decreto presentato dal ministro della Giustizia in carica, Alfredo Biondi. Nelle 24 ore seguenti migliaia di fax invadono le redazioni dei principali quotidiani: è il popolo dei fax che si era già mobilitato durante Tangentopoli, sostenendo le inchieste di Milano.

Sull’onda delle polemiche la Camera nega i “presupposti di necessità e urgenza” del decreto Biondi, invalidandone di fatto l’applicazione. Era un’Italia diversa. Quando, nel novembre 1994, 

Berlusconi rompe il tavolo di trattative tra governo e sindacati sul nodo della riforma del sistema pensionistico, ripartono le agitazioni sindacali e viene programmata una manifestazione nazionale contro la finanziaria e contro il governo Berlusconi. Bossi comincia a dare segni di insofferenza.

Il 22 novembre, mentre presiede la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata Berlusconi si vede recapitare un invito a comparire (e non un avviso di garanzia, come riporta sempre la vulgata) dinanzi alla Procura di Milano, nell’ambito delle indagini sul suo gruppo. Il 13 dicembre viene interrogato per alcune ore dai magistrati del pool, che pongono domande sulla presunta corruzione della Guardia di Finanza da parte dell’azienda del premier.

Il primo dicembre 1994 rientra il braccio di ferro con i sindacati, quando viene siglato un patto tra governo ed i sindacati stessi. Il primo stralcia i provvedimenti sulle pensioni dalla manovra finanziaria per il 1995, in via di approvazione entro la fine del mese. I secondi rinunciano allo sciopero generale annunciato per l’indomani, il 2 dicembre. Ma è solo la quiete prima della tempesta. 22 dicembre il governo perde la maggioranza alla Camera perché il leader della Lega Umberto Bossi ha deciso di revocare l’appoggio all’esecutivo (e non per i giudici, quindi, né per trane avverse: furono gli alleati a mollare Berlusconi). Alla fine della seduta Berlusconi rassegna le dimissioni, chiedendo il ricorso alle urne. Il Presidente della Repubblica Scalfaro affida invece il mandato per la composizione di un nuovo esecutivo all’ex ministro del Tesoro del governo Berlusconi, Lamberto Dini, che il 17 gennaio 1995 vara un governo tecnico destinato a guidare la transizione verso le politiche del 1996. Fini dirà che con Bossi “non prenderà mai più neanche un caffè”; Berlusconi lascia l’aula, seguito dal codazzo dei suoi parlamentari, ogni volta che Bossi parla. Il futuro dimostrerà l’incoerenza dei due, che hanno anche finito per litigare tra di loro.