Questo ennesimo capitolo della serie di Schiavone è, come gli altri, godibile e si fa leggere sempre d’un fiato. Manzini mette ormai il pilota automatico per gran parte del libro, soprattutto adesso che tutti i personaggi di “contorno” sono definiti e hanno risolto i loro contrasti di vita e col protagonista. I pochi fili lasciati “penzoloni” dal romanzo sono ovviamente spunti per i prossimi volumi che riguardano il vicequestore “non commissario” romano di stanza ad Aosta.
L’argomento è spinoso, ma di facile presa sul lettore; il colpevole si intuisce a pagina 75. Ma la parte “gialla”, in questi romanzi, non è la parte principale. Fortunatamente, altrimenti annoierebbero senza pietà, visto che la fine la si intravede già a un terzo del libro.
Ma Manzini muove i suoi personaggi su scenari descritti molto bene, e li fa emergere a tutto sbalzo non in funzione della trama (che, ripeto, è banalotta) ma perché hanno uno spessore narrativo e una dignità letteraria tutta loro. Tanto che si avrebbe quasi la voglia di avere un libro per ognuna di queste figure.
Il fatto che metta 3 stelle su cinque, e non quattro come meriterebbe questo libro è perché la descrizione della romanità, che in altri libri Manzini fa magistralmente spiegando , a esempio, agli ignari valdostani la differenza tra “sticazzi”, “sto cazzo” e “mecojoni” qui diventa quasi macchiettistica. La frase “a Roma essere puntuali è cafone”, oltre a non essere vera, contribuisce a dare un’immagine distorta di una capitale che viene fin troppo denigrata proprio per questi stereotipati luoghi comuni.
Voto 3/5