Ma a livello di particelle (l’elettrone, scoperto solo 40 anni prima, o il “quanto di luce”) tale distinguo diventava fondamentale. L’atomo, composto da elettroni in orbita, poteva avere questi ultimi solo a determinate orbite ed a determinate energie. La storia di come si scoprì il nucleo atomico, e di come il modello “orbitale” fu giustamente prima rifiutato e poi accolto dalla comunità è un romanzo a sè stante. A noi basti sapere che tutto ciò si spiegava benissimo ammettendo che l’elettrone stesso fosse, oltre che una particella, un’onda.
A questo punto – e solo grazie a strumenti di misura più raffinati, senza inutili preconcetti! – si entrava in un mondo fantastico, dove tutte le componenti fondamentali della materia erano sia onda sia particella. Le nuove teorie, difficili da accettare mentalmente, ma incontrovertibili dal punto di vista sperimentale, prevedevano questo salto concettuale, che novanta anni fa doveva apparire enorme. Io adesso adoro spiegarlo come faceva Asimov, prendendo in prestito il nostro amico Marco: chi è Marco? Un ingegnere, un tifoso della Lazio, un signore appassionato di teatro o un tenero padre di famiglia? Bene, a seconda di cosa voglio “misurare” di Marco egli sarà una cosa o l’altra: difficile vederlo tifoso della Lazio quando deve lavorare, difficile vederlo padre di famiglia mentre apprezza Shakespeare. L’unica risposta possibile è che Marco è Marco ì, e che quello che è dipende dalla prospettiva dalla quale lo vedo (ossia dal tipo di misura che faccio).
Questo cambio di paradigma portò a scoperte meravigliose in pochissimi anni, ed Einstein non a caso il Nobel nel 1921 lo prese per l’effetto fotoelettrico, che aveva dato inizio a tutta la Meccanica Quantistica. Altro che rifiuto della meccanica quantistica! A chi gli chiedeva, oltretutto, cosa avrebbe detto al buon Dio se le sue teorie della relatività si fossero rivelate sperimentalmente errate, rispose “Mi sarebbe spiaciuto per il buon Dio, perché la teoria era giusta”.
Atteggiamento, questo, che è fondamentale in fisica: lavorare senza preconcetti e personificazioni è fondamentale: si deve accettare solo quello che è misurabile ed il risultato di questa misura, e la teoria che mostra in numeri i risultati stessi. I fisici un errore del genere lo avevano appena fatto: quando si tentò di misurare la carica elettrica dell’elettrone, il primo a farlo fu tale Millikan, un potente – anche politicamente – fisico. La sua misura era errata sperimentalmente, e sottostimò il valore. I risultati degli altri gruppi di lavoro portarono nel tempo risultati sempre lievemente maggiori, fino a raggiungere il valore giusto dopo qualche anno. Cosa era successo? In realtà, tranne Millikan, tutti avevano trovato subito il valore reale, ma sottostimavano sempre le loro misure per non andare contro “un mostro sacro”. Un errore concettuale che ha ritardato tante scoperte, dal quale si spera di esserne guariti, se non altro come comunità scientifica.
Torniamo a noi: quando si provò ad unificare la teoria della relatività con quella quantistica uscirono fuori tanti aspetti meravigliosamente nuovi tra cui, però uno che era particolarmente sconvolgente: era impossibile conoscere con precisione assoluta più di un aspetto dell’oggetto da misurare: se volevo sapere la posizione, poniamo, di un elettrone, non ne potevo sapere la velocità, se volevo sapere la massa di questo, non ne potevo conoscere l’energia. Questo “principio di indeterminazione” portò ad un fatto sconvolgente: le particelle quantistiche non erano più in un luogo, ma “in tutto lo spazio-tempo”, descritte da una funzione matematica il cui quadrato dava la probabilità che la particella fosse effettivamente in quel luogo. Era troppo anche per Einstein che affermò in questo caso la famosa frase “Dio non gioca a dadi”, rifiutando quindi non la meccanica quantistica, ma le sue conseguenze di indeterminazione… Si era arrivati ad un punto morto.
(4 – Continua)