Il 1964 si chiudeva con i quattro sfiniti dalle tournée e dall’obbliga di sfornare musica nuova. Mancano ancora un 45 e un 33 giri all’appello. Le sessioni di registrazione erano prenotate, e bisognava portare materiale. Si decise quindi di ritornare alle cover, prendendone sei che facevano già parte del repertorio del gruppo sin dai primi anni ’60.

 

Alla ricerca per il pezzo da mettere sul 45 giri, John, per errore, avvicinò troppo la sua chitarra elettrica all’amplificatore senza prima mettere il volume a zero. Si generò il classico fischio distorto che in genere tutti cercano di far terminare prima possibile, ma John Lennon non era John Lennon per caso: capì che era possibile, lavorandoci, creare un effetto interessante. Era nato l’inizio di “I Feel Fine”, che da quel momento divenne la canzone da mettere sul singolo. Per capire la portata di quella scelta, basti pensare ai chitarristi che l’hanno poi sfruttata da allora: Gente del calibro di Jimi Hendrix e Pete Townshend. Il Lato B era un rock urlato da Paul, intitolato “She’s a Woman”. Un 45 giri scritto di fretta, ma con due canzoni capolavoro. Un altro numero uno.

 

Il 33 giri che uscì la settimana seguente si intitolava “Beatles for sale” e – magari in maniera involontaria – raccontava già dal titolo la stanchezza di una band come quella dei Beatles, che si sentiva merce da commerciare, nonostante l’infinito talento che aveva. Nonostante la cura messa nella copertina del disco, è considerato quasi unanimemente il lavoro meno riuscito dei fab four. Io non sono d’accordo.

 

Anzitutto, parlare di qualcosa di “meno riuscito” nel caso dei Beatles rasenta l’eresia: questo album sarebbe considerato una delle punte di diamante di qualsiasi altra band, anche più matura musicalmente dei quattro di Liverpool. Ricordiamo che avevano, allora, un’età che andava dai 21 ai 24 anni. E poi, tirare fuori qualcosa del genere in soli due mesi, con anche studi su effetti da poter sfruttare con le nuove tecnologie presenti negli studi Emi di Abbey Road ha del miracoloso.

 

È vero, qualche pezzo sembra tirato via, e George e – soprattutto – Ringo sono figure di contorno (nessun pezzo scritto, e un pezzo ciascuno cantato dalle cover). Ma ci sono in termini di musica e parole delle autentiche perle. Vediamone qualcuna:

 

No Reply ha per la prima volta un inciso lungo il doppio e non ripetuto. Quei 30” da soli valgono il pezzo;

I’m a Loser è un pezzo di John autobiografico, e le parole sono bellissime;

Baby’s in Black è un omaggio ad Astrid (vedi “With the Beatles) e al fatto che fosse vedova di Stu

Rock’n’Roll Music è un’altra mastodontica prova di John su un pezzo di Chuck Berry: registrata praticamente in stile “buona la prima”, con Paul al piano e George al basso, la parte delle tastiere fu reincisa da George Martin per dare al pezzo ancora più carica. Io lo trovo fantastico.

Con KansasCity/Hey Hey Hey Hey Paul risponde a John prendendo una cover di Little Richard che è in realtà un medley, replicando la voce graffiante di She’s a Woman;

Eight Days a Week che apre il lato B del disco introduce per la prima volta il “fade in” (ossia il fatto che la canzone compaia gradualmente). L’effetto in genere veniva fatto al termine per far sfumare la canzone. Doveva essere questo il 45 giri originale (scritta da Paul ma cantata da John; che non la gradiva particolarmente), con il titolo frutto di uno dei giochi di parole involontari di Ringo (lavoravano così tanto da sembrare che lo facessero otto giorni a settimana), ma “I Feel Fine” era in effetti più potente.

 

La copertina e il retro erano due foto “autunnali” dei nostri eroi sempre di Peter Freeman; la particolarità era nel fatto che il disco “si apriva”, e nella parte interna c’erano le canzoni, assieme ad altre due foto in bianco e nero e alle note dell’ufficio stampa, affidate a Derek Taylor, stavolta.

 

Insomma, il 1964 si chiudeva con un album meno curato dei precedenti (che già lo erano poco), ma con tante caratteristiche già evidenti. La beatlemania era all’apice; il fatto che il 1965 non li vide rilassarsi sugli allori, ma tirare fuori altri capolavori immortali, da l’idea di quanto il talento del gruppo fosse ancora attivo.