Era il 1970. Con il cambio di decennio l gruppo ormai non esisteva più. Lo sapevano benissimo anche loro. Pur non avendo il coraggio, secondo chi scrive, di ammetterlo. I loro progetti personali – non solo provati, ma anche musicali – venivano ormai prima di quelli di gruppo. Quella fiammo potentissima accesasi nell’autunno del 1962 con una ballata semplice si stava esaurendo dopo aver fatto una luce accecante per sette anni e mezzo.
Rimaneva da pubblicare solo il prodotto del mezzo fallimento di “Get back”: quell’idea di film/fiction/documentario/album, non lo sapevano bene neanche loro, che partorì il “topolino” del concerto sul tetto del 30 gennaio 1969. Per noi quella musica è adesso un classico, ma immaginiamo cosa doveva essere per chi sentiva “Two of Us” o “I’ve got a feeling” per la prima volta in quella maniera. Il progetto, quindi, era di rilasciare un 45 e un 33 giri di “chiusura” con le musiche registrate quel gennaio 1969 tra Twickenham e gli studios. Il tecnico del suono, tra parentesi, era un giovane di talento che aveva già lavorato con una promettente band ad Abbey Road. Lui era Alan Parsons, e il gruppo i Pink Floyd. Il lascito dei Beatles morenti non era niente male…
Il progetto, quindi, si sarebbe chiamato “Leti t Be”, come la canzone che sarebbe uscita su 45 giri e avrebbe dato il titolo all’album. Il lato B del 45 giri venne ripreso da vecchie composizioni del 1967. Si chiama “You know my name (look up the number)” ed è un “pastiche” fondato su questa frase ripetuta su 4 ritmi e melodie diverse. Dovevano essere cinque, poi in fase di montaggio una venne tagliata, forse per la lunghezza. Interessante è vedere come l’ultimo pezzo, poco più che una serie di grugniti, sia invece chiarissimo: la maturità produttiva e creativa dei quattro era ormai così forte da poter creare anche dal nulla qualcosa che per parecchie altre band sarebbe stato l’apice di una carriera.
Ma è con l’album che i rapporti tra i quattro (e soprattutto tra John e Paul) si guastarono: e quando un’amicizia del genere termine avviene sempre in maniera traumatica. Andiamo con ordine, e vediamo i pezzi, tutti registrati PRIMA di Abbey road. Quidni, pur essendo questo l’ultimo LP in ordine di uscita, non lo è in ordine di composizione.
– Two of us è una canzone cantata da John e Paul (che l’ha composta) spesso insieme. Bello sentirli amici e senza compagne per un’ultima volta. Peccato che la canzone parlli del rapporto di Paul con Linda, anche se dall’interpretazione sembra di no. Sembra che i “Two of Us” siano proprio loro due.
– Dig a Pony è John che fa una dichiarazione d’amore a Yoko (bello vederla parlottare con Linda, nel film, durante queste registrazioni)
– Across the Universe era già uscita come canzone per una raccolta con fini di beneficienza. Qui è in versione più “nuda”, senza troppe sovraproduzioni
– I Me Mine è la prima canzone di George dell’album. Ne aveva tante, i due scelsero quelle più facili da suonare (questa è un valzer, l’altra un blues). Ecco anche perché George durante quelle registrazioni lasciò il gruppo…
– Dig It (firmata dai quattro assieme) e una Jam session di otto minuti in cui solo gli ultimi 50 secondi appaiono nell’album. Canta John, che poi introduce il pezzo dopo (che da il titolo all’album) come se fosse una canzone natalizia…
– Lei it Be è tutto: canzone religiosa, invocazione alla mamma di Paul (Mary era il suo nome), pezzo pop… l’ultimo capolavoro dei fantastici quattro.
– Maggie Mae, anche questa firmata dai quattro, è la rielaborazione di una canzone popolare di Liverpool su una prostituta. Da quei nastri decisero di prendere proprio tutto…
– Il lato B si apre con “I’ve got a Feeling”, dove Paul e John fanno quello che con “A day in teh life” di Sgt. Pepper fu un successo: unire due canzoni – una dell’uno, una dell’altro – e vedere che ne esce fuori. Il risultato è meraviglioso, anche se non a livello di “A day…”
– “One after 909” è un “train blues” che i due avevano scritto in gioventù, qui riadattato. E’ bello vedere come – alla faccia della boy band – già da adolescenti scrivevano pezzi che funzionavano anche nel 1970.
– “The long and Winding Road” è stata la pietra dello scandalo. Fatta sovraprodurre da John per cancellare I suoi errori al basso senza prima avvertire Paul, generò l’ira di questo, che proibì con lettera di un avvocato l’uso della parola Beatles. John se la legò al dito. Questa è di Paul (john la firma e basta), e si sente che è in stile orma “Another day”, ossia Paul che fa e disfa da solo. Personalmente, la ritengo sopravvalutata
– “For you blue” di George è un blue allegro, e l’ultima canzone dei Beatles nell’ordine cronologico di uscita. Saluta George (simbolica questa cosa: i due non c’erano più” e con un pezzo felice.
– “Get back”, infine, è non la versione su 45 giri, ma quella sul tetto, interrotta per l’arrivo della polizia, con John che alla fine dice “Ringrazio tutti da parte del gruppo e mia (dice “noi”, in preda a chissà quale pensiero), e spero che abbiamo passato le audizioni”. Si John, lo avete fatto. E avete scelto questo finale proprio per farvelo dire.
Ecco. È finita la storia. Inizia la leggenda. Anche con gli insulti che John e Paul cominciano a scambiarsi con gli album successivi. Iniziano quattro carriere soliste ottime, anche se offuscate dalla parola che più di tutto significa musica nel XX secolo:
“The Beatles”