Nel 1968 inizia, per i Beatles, l’introspezione che li porterà allo scioglimento. Nell’arco di due anni, pur producendo musica memorabile, e album che hanno fanno la storia del Rock, intraprendono la strada che, lentamente ma senza ripensamenti, li porterà prima ad essere 4 solisti di una superband, e poi 4 solisti e basta.

Il primo 45 giri dell’anno ne è una dimostrazione: “Lady Madonna” non è solo una semplice canzone rock’n’roll scritta da Paul McCartney per un singolo di grandissimo successo è il ritratto forte e concreto di una figura femminile che lotta ogni giorno per i suoi figli, un’eroina per il McCartney figlio della classe operaia di Liverpool. E’ una delle prime canzoni realmente impegnate scritte da McCartney nella sua carriera, messaggi diretti velati quasi sempre da una melodia godibile. Ormai Paul si sentiva il “capo” anche “de jure”, non solo “de facto”, e cominciava a sconfinare negli argomenti cari al suo amico/rivale John. IL Lato B non vede John, perso nella sua nuova storia d’amore nascente con Yoko Ono, ma George.

“The Inner Light”, è un’immersione nella filosofia orientale sviluppo della “within you without you” di Sgt. Pepper. E’ il primo brano del beatle tranquillo a comparire su un singolo ed è una canzone impreziosita da una base musicale registrata interamente a Bombay con musicisti indiani durante le sessions per la colonna sonora firmata dallo stesso Harrison del film “Wonderwall”. Il testo è preso da un capitolo del libro “Classico della Via e della Virtù”, opera filosofica della letteratura cinese del III secolo a.C, significativi della filosofia abbracciata da Harrison i primi versi, “Senza uscire di casa/Posso conoscere tutte le cose della terra/ Senza guardar fuori dalla finestra/Potrei conoscere le vie del cielo”.

“The Inner Light” non presente nessuna collaborazione degli altri membri del gruppo e si inserisce come atmosfera pienamente nella prima opera di Harrison da solista, “Wonderwall Music”.

 

Ma la vera “rivoluzione” si ebbe col secondo singolo. Hey Jude – canzone che Paul scrisse pensando a Julian, il figlio di John triste per la separazione dei genitori, è un pezzo di storia, che lo stesso Lennon approvò convintamente. Gli oltre sette minuti, frutto del lunghissimo coro finale voluto a tutti i costi da John contro George Martin, ne fecero il pezzo più lungo dei Beatles fino a quel momento (ma durò poco)

Sul lato B (ma era veramente un lato B?) “Revolution”, di John, è forse la summa del suo pensiero. Fu forzato a velocizzarne il ritmo (si rifece pubblicando la sua versione sull’album successivo), ma lui ebbe modo di rendere il pezzo comunque magnifico. Questo fu il primo 45 giri a uscire con la loro etichetta, la “Apple” (nome che da Adamo ed Eva in poi ha sempre significato rivoluzioni, dall’Eden ai Personal Computer). La morte di Brian Epstein, infatti, aveva convinto i quattro a “fare da soli”.

 

L’album successivo è un altro pezzo storico del gruppo, l’ennesimo. Frutto in gran parte del loro viaggio meditativo in India, del rifiuto di Ringo con abbandono della band per la Sardegna (e successivo ritorno all’ovile), dei “Viaggi” di John tra le droghe e Yoko (e nonostante tutto, capace di pezzi meravigliosi), della supponenza di Paul, del percorso di George sempre più solista e chiuso, e del silenzio di Ringo, “The Beatles” ha tutto per essere un capolavoro. A cominciare dalla copertina, completamente bianca con la scritta “The beatles” che si intuisce solo perché lievemente in bassorilievo. Fare un album doppio, a quei tempo, era una mezza rivoluione, oltre ad essere un rischio enorme: potevano esserci tanti riempitivi, soprattutto se l’album non era “concept”, ossia ispirato ad un unico aspetto. Ma

Il processo compositivo di Lennon e McCartney si rivela inconsueto ma originale, portando alla stesura di materiale dissimile ed affinato solo quando il gruppo rientrerà a Londra dove (anche questa volta) presso gli Abbey Road Studios, verranno sviluppate le basi per una consistente lista di brani che andrà a trovare posto sul nuovo disco. Vediamoli nel dettaglio:

 

“Back in the USSR” è l’attacco perfetto: al di là dell’ironia della spia sovietica che torna a casa “in Georgia”, è rock allo stato puro; si fonde senza continuità con una delle più belle canzoni di John: “Dear Prudence” è stata scritta in onore della sorella di Mia Farrow, che era a meditare con loro in India, ed è dolcissima. ”Glass Onion” è uno scherzo di John per prendere in giro chi voleva trovare significati in ogni loro canzone (e che dopo aver cantato “I am the Walrus” dice the “The walrus was Paul”). Ob-la-di Ob-la-da sono quegli scherzi in stile “antico” che a Paul piacevano tanto e che John detestava. Ma è così orecchiabile da essere diventata eterna. “Wild Honey Pie” è un gioco di Paul, e la canzone più corta del canone beatlesiano fino a quel momento. “The continuing story…” è John che prende in giro uno che era lì con loro a meditare e poi andava a caccia di elefanti. In questa canzone si sente per la prima volta la voce di Yoko. Non proprio un’ugola d’oro… “While my Guitar gently weeps è la canzone di George di questo lato, ed è fantastica. Non si capisce perché sia stata sempre sottovalutata. Il lato A del disco 1 si chiude con “Happiness is a Warm Gun”, un pezzo di John che descrive le sue percezioni sotto droghe, somma di tre spezzoni diversi di canzoni, nonostante ciò meraviglioso.

“Martha my Dear” apre il lato B ed è la canzone di Paul per il suo cane. “I’m so Tired è un diario di John in India, “Blackbird” è il secondo tenativo di Paul, dopo “Lady madonna” di fare poltica in musica; viene poi il quasi medievale “Piggies” di George, e due pezzi quasi country: “Rocky racoon” di Paul e “Don’t pass me By”, prima canzone scritta da Ringo (nel 1964!) e che arrangiata in questa maniera trova finalmente spazio nei dischi dei quattro di Liverpool. “Why don’t…” è Paul e il suo rock; l’opposto della dolce “Il Will”. “Julia”, dove John confonde la madre morta quando lui era adolescente con Yoko chiude il primo disco.

Con “Birthday” Paul apre il secondo disco. Il suo Rock che si contrappone al blues, tragico e sublime, di John con “Yer Blues”; abbiamo poi due canzoni di Paul: la dilce “Mother’s Nature Son” e la dura “Everybidy’s…” dove si parla di scimmia (anche Paul faceva uso di droghe). “Sexy Sadie” è la maniera che ha avuto John per prendere in giro il santone della loro meditazione che con le donne sembrava mettesse le mani dove non doveva. “Helter Skelter” è Rock duro di Paul, così duro che Ringo, alla fine del pezzo urla di avere le vesciche alle dita per quanto ha pestato con le bacchette. Il brano, male interpretato da Charles Manson, diventerà l’inno della sua setta satanica che uccise Poi Sharon Tate. Il lato A si chiude con George e la sua mistica “Long Long Long”

L’ultima “side” del doppio si apre con “Revolution 1”, ossia la “Revolution” che John aveva in testa (con tanto di simulazione di coito alla fine); “Honey Pie” è il vaudeville che piace tanto a Paul; “Savoy truffle” di george è poco più di uno scherzo, ma divertente. “Cry Baby Cry” sono i giochi di Parole di John, cui si aggiunge in coda una “ghost track” di Paul che dice solo “Can you take me back”. E poi c’è “Revolution 9”, un nonsense lungo oltre otto minuti fatto solo di suoni, spezzoni di nastri montati a caso, e una voce che ogni tanto ripete “number nine”. La voglia di sperimentare, qui, è ai massimi livelli. John, che è stato il principale fautore di questo progetto, è anche l’autore della dolcissima ninna nanna cantata da Ringo alla fine. Ninna nanna vera, perché la cantava a Julian prima di addormentarsi. Pensate ad avere come papà John Lennon che inventa una canzone per il vostro sonno, e che canzone!

 

Annidato nella sublime follia del White album (così verra chiamato da tutti) c’è insomma tutto un senso di fare musica, ad alti anzi altissimi livelli, che sa quanto sia importante non lasciarsi dominare dal bisogno di controllare e pianificare tutto, e che al contrario concepisce l’espressione come una coltura di intenzione, ispirazione e mestiere continuamente irrigata da errori, estemporaneità, incidenti ed estro momentaneo. Può sembrare poco, ma è moltissimo.

Raramente un disco rock è riuscito a compendiare i caratteri propri dell’ “opera aperta”, modello interpretativo all’epoca molto utilizzato e particolarmente adatto al “White Album”.

Si coglie soprattutto la fine non solo cronologica degli anni ’60, il paesaggio è desolato, sconfortante, la realtà è inafferrabile ed ambigua: quella dell’amore universale è stata una bella e colorata illusione, ma sono in arrivo i Settanta. Un decennio difficile, violento, traumatico che i Beatles annunciano, in qualche modo. Anzi, a loro modo.