Ripropongo qui una mia intervista a Barbara Gallavotti del 2018 fatta per L’Indro. A voi commenti:

 

 

Ci fosse ancora il vecchio indice di gradimento per la TV, le trasmissioni di Piero ed Alberto Angela sarebbero stabilmente ai primi posti della classifica. E questo risultato, sorprendente se si considera l’offerta televisiva globale, fatta prevalentemente di trasmissioni in stile reality dove gente comune e VIP più o meno famosi si cimentano in svariate attività, dalla cucina al canto fino al tentativo di matrimonio, fa capire che forse, al di la di ciò che può apparire ad una prima occhiata distratta, il bisogno di cultura ed il gusto di apprezzare la conoscenza è ben radicato nel pubblico italiano.

Eppure, l’offerta culturale globale, non solo televisiva, in Italia è paurosamente bassa. Peccato, perché il nostro paese ha, per usare una frase fatta ormai vetusta, proprio nel patrimonio culturale a tutto tondo (artistico, letterale, scientifico) il suo petrolio.

Ne abbiamo parlato per approfondire l’argomento – partendo proprio dal successo delle trasmissioni degli Angela – con Barbara Gallavotti, biologa, autrice di libri di divulgazione per ragazzi, già responsabile della comunicazione istituzionale dell’Istituto nazionale di Fisica Nucleare e coautrice di alcuni dei format degli Angela (Superquark, Ulisse, tra gli altri). Ne è uscita fuori un’interessante chiacchierata, che partendo proprio dai programmi televisivi, alla fine ha spaziato fino ad affrontare temi molto più generali come l’analisi della situazione educativa globale italiana ed il ruolo che la politica ha o dovrebbe avere nello sviluppo culturale e scientifico. Gallavotti parla pacatamente, ed ha una caratteristica tipica della persone di formazione scientifica: dopo una frase, attende sempre qualche istante prima di riprendere il discorso, come per sincerarsi che ciò che dice sia la migliore rappresentazione in parole del suo pensiero.

Dottoressa Gallavotti, come viene organizzato un lavoro di divulgazione scientifica “a tutto tondo” come fate voi?

Ci sono differenze anche importanti tra la preparazione di Superquark e quella di Ulisse. Nel primo caso, un magazine, abbiamo diversi mesi di tempo per preparare i vari “articoli”, che poi andranno in onda nelle 10 o 12 puntate del programma. Quindi cerchiamo di occuparci anche di temi di attualità, ma sempre trattandoli da un punto di vista ampio, che si mantenga interessante anche dopo che è passato il momento “caldo” della notizia. In genere si prepara un elenco di argomenti potenzialmente interessanti, assieme a Piero Angela viene poi creata la lista di quelli selezionati, e ci si comincia a lavorare.

Nel caso di Ulisse, che è invece una trasmissione di due ore a tema unico, si lavora su ciò che Alberto Angela indica, e che può anche essere legato a ciò che succede (ed esempio una ricorrenza, un evento, il restauro di un monumento).

Va comunque sottolineato che in entrambi i casi c’è un enorme lavoro tecnico da svolgere: dalle inquadrature, al montaggio post produzione, alla scelta delle musiche. Un buon prodotto richiede un’attenzione direi quasi maniacale a tutti questi aspetti.

Studiate approfonditamente il tema sin dall’inizio, oppure cominciate da un canovaccio di base per poi aggiungere ciò che venite a sapere strada facendo?

Come in ogni lavoro giornalistico, si parte con un’idea di ciò che si vuole raccontare, ma questa può mutare o arricchirsi in fase di realizzazione. In particolare nel caso di Ulisse, proprio per la struttura della trasmissione, anche quando si parte da una base molto consistente si finisce sempre per approfondire ulteriormente altre cose che si vengono a scoprire, magari grazie alle chiacchierate con esperti, della cui consulenza ci avvaliamo sempre. Questo succede anche con Superquark, in misura minore per ciascun servizio perché naturalmente i tempi sono molto più stretti.

Quanto la forma del programma diventa poi sostanza? La cura tecnica del prodotto può far rinunciare ad alcuni argomenti o approfondimenti?

Guardi, a parte i cosiddetti film maker che girano documentari autoprodotti, il risultato finale che poi viene trasmesso in una televisione è sempre frutto di un lavoro fatto da una squadra che comunica in continuazione. Consideri che nella RAI gli standard da rispettare in termini di regia, montaggio, colonne sonore sono sempre molto elevati. Ogni difficoltà che emerge viene condivisa e si trova sempre una soluzione lavorando tutti assieme. In questo, un grande merito va a Piero ed Alberto Angela: sono bravissimi a creare la squadra ed a valorizzare l’apporto di ogni singolo componente, rispettando le competenze di ognuno di noi. A volte alcune interviste interessantissime sono state eliminate dal prodotto finale perché non funzionavano televisivamente parlando, altre volte in mancanza di inquadrature coerenti con ciò che si voleva comunicare si è ricorsi a animazioni, oppure si sono trovate soluzioni di altro tipo.

Il successo delle ultime trasmissioni porta voi autori a cercare di replicare il format o cercare di cambiare la struttura dei programmi in modo tale da offrire sempre qualcosa di nuovo?

Anzitutto, bisogna essere bravi nel creare un buon prodotto, e gli Angela sono dei maestri in questo. Le parlo di “Meraviglie. La penisola dei tesori”, ad esempio. Posso farne un’analisi da semplice telespettatrice in quanto non ho fatto parte del gruppo che ha realizzato la trasmissione. Io credo che Alberto abbia cercato, in un periodo in cui noi italiani ci stavamo forse denigrando troppo, di mostrare alcuni degli aspetti migliori dell’Italia, mostrando la bellezza delle sue opere d’arte e del suo paesaggio. Era il momento giusto per fare una trasmissione del genere. Ed Alberto Angela ci ha pensato. E’ questo il loro grande merito. Quello di riuscire a fare un ottimo prodotto al momento giusto. La strada da percorrere, in questi casi, può sembrare facile, ma bisogna sapere dove andare. Se un magazine come Superquark non ha bisogno di grandi variazioni, programmi a tema possono, ed anzi devono, invece saper essere presentati al momento giusto. E lo dico non per fare una banale autocelebrazione del nostro lavoro. Se, come risulta dai dati di ascolto, molti apprezzano questo tipo di lavoro, la probabilità che sia realmente fatto bene e non sia solo questione di fortuna o altro è elevata. E ormai questo succede a partire da “Quark”, più di 35 anni orsono.

A questo proposito, vorrei fare un cenno anche al rigore intellettuale dei prodotti che realizziamo: ciò che è scientificamente accertato viene chiaramente distinto da quella che può essere una semplice supposizione o una trovata scenica. Ovvio che il prodotto televisivo deve essere fatto anche al fine di avere un successo di audience. Ma non si deve mai rinunciare, in nome di questo, all’esattezza scientifica

Ma riuscite sempre a fare tutto ciò che avete in mente? Ci sono degli argomenti che vorreste realizzare ma che ancora non siete riusciti a mettere in programma?

Gli unici problemi che dobbiamo affrontare sono quelli tecnici, e l’unico limite da considerare è il tempo, nel senso che le trasmissioni non solo hanno durata e struttura ben definite, ma richiedono anche molto tempo per venire realizzate. Alcune cose sono in programmazione, altre in fase di ideazione. Si pianifica sempre tenendo in considerazione il prossimo passo da fare. Siamo fortunati: non abbiamo sogni nel cassetto, nel senso che tutto quello che desideriamo fare, al livello di trasmissione televisiva, credo che prima o poi lo realizzeremo.

Lei, dottoressa, crede che la divulgazione scientifica e culturale che voi realizzate sia utile non solamente per fornire alla RAI un buon prodotto, ma anche come base per programmi didattici? Vi sentite più “persone di televisione” o “portatori di cultura”?

Io tutta questa differenza non la vedo, sinceramente. Che la televisione,e la RAI in particolare, sia un’industria culturale non credo si possa mettere in dubbio. Detto questo, lo scopo è quello di realizzare un buon prodotto per la televisione. Come tutti i programmi, anche noi abbiamo bisogno di determinati obiettivi di audience per avere contezza della buona riuscita della trasmissione. Noi sappiamo che tanti dei nostri programmi sono stati fatti vedere anche nelle scuole da insegnanti che un tempo li registravano anche sulle vecchie VHS, e credo sia una cosa che ci riempie tutti di orgoglio. Non è tuttavia questo, né può esserlo, lo scopo principale della trasmissione. Molti di noi, nell’ambito delle proprie ulteriori attività, comunque, hanno incontri abbastanza frequenti con scuole di ogni ordine e grado.

A proposito della altre attività che lei svolge: è stata per anni responsabile della comunicazione dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare). Quanto questo tipo di comunicazione è diversa da quella di divulgazione?

Stiamo parlando di due cose completamente diverse. Qui non si tratta di creare un prodotto, né di banalmente rilasciare scarni comunicati stampa. Fermo restando che ogni ricercatore, a titolo personale, credo possa essere libero di dire ciò che vuole, impostare una strategia di comunicazione per istituti che fanno della ricerca la propria ragione di essere è essenziale. Qualsiasi scoperta va infatti, nel momento in cui è comunicata, contestualizzata in maniera tale da far arrivare al pubblico il succo di essa, senza dilungarsi in aspetti ultratecnici. Si cerca di spiegare perché ciò che si è scoperto è importante, se ci possono essere implicazioni tecnologiche di rilievo o anche dare risalto al puro piacere della conoscenza che ci ha portato a scoprire un altro piccolo lembo di questo grande romanzo che è l’universo. Del resto, l’amore della conoscenza fine a se stessa è innato in tutti noi, altrimenti non si troverebbe una così grande fetta dell’umanità che ha scelto come mestiere quello di scienziato, facendo della ricerca di base e del piacere della conoscenza la propria ragione di vita.

Ovviamente, a differenza del lavoro giornalistico puro, la comunicazione istituzionale è una comunicazione di parte. Non nel senso deteriore del termine, però. Vuol dire, molto più semplicemente, che è la comunicazione di una parte che comunica il lavoro svolto. Per farlo ci vuole sicuramente un controllo a monte della maniera in cui le informazioni vengono divulgate, ferma restando però, ovviamente, l’assoluta trasparenza su ciò che si fa. Alla fine stiamo parlando comunque di scienziati che devono essere, per mestiere, intellettualmente onesti nel loro lavoro.

Si, ma il rapporto con il grande pubblico? E’ recente la storia dell’esperimento SOX sotto il Gran Sasso bloccato dalle istituzioni locali, in seguito ad un servizio delle Iene, con motivazioni che di scientifico hanno poco. Si poteva fare di più da punto di vista della comunicazione istituzionale per non allarmare inutilmente la popolazione che vive nei dintorni del Gran Sasso?

Non facendo più quel tipo di lavoro, non sono in grado di dare risposte certe. Oltretutto, l’esperimento è stato recentemente annullato per tutt’altri motivi. Se la strategia che si è deciso di tenere in quel caso è stata quella del basso profilo, ci saranno state evidentemente delle meditate ragioni. Non possiamo ragionare con il senno di poi su questi argomenti. In genere si fa al meglio ciò che si ritiene giusto fare, non ci può essere controprova.

La strategia che si decise, per un’altra crisi ai laboratori del Gran Sasso, nel periodo in cui curavo la comunicazione istituzionale fu diversa. Apparentemente fu un successo, certo: decidemmo, con una comunicazione molto aperta, di spiegare come stavano le cose alla popolazione e si riuscì a non fermare gli esperimenti. Ma chi può dire che non avremmo potuto fare di meglio? Critiche ne ricevemmo anche allora; avevamo, come ne sono certa anche i colleghi oggi, solo la certezza di aver lavorato al meglio delle nostre possibilità.

Lei ha lavorato come consulente per la comunicazione istituzionale anche al CERN. Vede differenze tra la maniera di approcciare tale lavoro per un’istituzione italiana ed una multinazionale?

Ferma restando la diversità del lavoro svolto (per il CERN ho curato più progetti specifici che non comunicazioni istituzionali in senso stretto) non vedo grosse differenze, se non nel fatto che, lavorando per un’istituzione italiana, il pubblico da raggiungere – e da gestire – è più omogeneo. In una struttura internazionale come il CERN vanno rispettate le necessità di tutte le nazioni e gli enti coinvolti. Ciò porta talvolta a compromessi che però non giovano al risultato della comunicazione. Tanto per farle un esempio, un tema poco efficace che in una trasmissione come Superquark si può evitare di trattare, in una grossa struttura internazionale può dover essere magari comunicato comunque per ragione di equilibri, anche se rischia di raggiungere veramente poche persone.

Ma vede, il problema principale secondo me è la mancanza di parametri quantitativi per determinare se una comunicazione istituzionale sia efficiente o meno. E’ un aspetto che fa si che questo tipo di lavoro non sia ancora maturo, a mio modo di vedere. Ci si basa di solito su stime qualitative, sensazioni o poco più, ed allora diventa importante soprattutto la fiducia che lo scienziato o il ricercatore ha nei confronti della comunicazione. C’è insomma, ancora molto lavoro da fare, a mio modo di vedere.

orniamo nel nostro paese. Come vede la situazione culturale generale in Italia? La sensazione, per usare termini eufemistici, è che ci sia spazio per ampi miglioramenti.

Io credo che molte cose che fino a quindici anni fa si potevano fare in termini di disponibilità economica, adesso non siano più possibili. La stagnazione dalla quale stiamo molto faticosamente uscendo lascia poco spazio a investimenti culturali. E’ un peccato, perché la richiesta di scienza e di cultura in Italia c’è (basti vedere, per tornare a Piero ed Alberto Angela, il successo delle loro trasmissioni), ma viene regolarmente sottovalutata L’obiezione che al pubblico si debba dare ciò che vuole è risibile: anche se obblighi le persone a mangiare solo al fast food, ciò non vuol dire che si perda poi il gusto per l’alta cucina. Insomma, vedo la situazione culturale come un terreno molto fertile, in Italia, che però è coltivato poco e male.

Il nemico vero, comunque, e lo dico senza alcun retropensiero politico, è la convinzione che argomenti complessi abbiano soluzioni semplici. che viene poi molto sostenuta dal populismo. In effetti come mi disse una volta un fisico, e la frase mi è piaciuta molto, “ogni problema complesso ha sempre una soluzione semplice, solo che in genere è quella sbagliata”.

Ma alla luce del proliferare delle fonti di informazioni degli ultimi decenni soprattutto in rete, secondo lei deve cambiare anche la modalità di informazione e di formazione della cultura di un individuo? Penso soprattutto ai programmi didattici.

La disponibilità di altri modi di fruizione della conoscenza è a mio avviso solo un allargamento delle fonti di informazione disponibile, che non può essere alternativo alla formazione, quella principale, basata sullo studio anche dei libri, sulla fatica della meditazione, sul tempo necessario a fare correlazioni tra ciò che si sa per allargare il campo della propria conoscenza. La formazione è un processo che deve essere lento e continuo, e che non ammette scorciatoie. Mi scusi se mi accaloro su tale argomento, ma io non capisco come sia possibile che secondo qualcuno si possa diventare padrone di un tema scientifico visitando un sito internet o guardando un video su youtube. Sarebbe come a dire che si può giocare a pallone bene come Messi leggendo la voce “Calcio” su un blog o guardando un video con le sue azioni migliori. Nessuno si sogna di pensare che si possa imparare bene uno sport senza investire tantissimo tempo e fatica, giusto?. Come mai, nel caso della formazione culturale, o nell’acquisizione di competenze scientifiche, invece si?

Risposta molto chiara. E del resto c’è chi, in termini di comunicazione scientifica aggressiva su questi argomenti, comincia ad emergere sui media. Penso a Roberto Burioni, ed al suo atteggiamento ai limiti dell’insulto, che viene però percepito, in alcuni casi, come saccenza pura e semplice.

Guardi, Burioni agisce in modo opposto a come che ho sempre cercato di fare io in ogni mia attività di comunicazione, sia a livello istituzionale sia a livello di televisione. La sua frase “La scienza non è democratica” urta la sensibilità di parecchi, anche se ovviamente ha una sua verità. Io credo ci sia modo e modo di affermare tale cosa, e forse quello di Burioni non crea empatia.

Però nel confronto con alcuni interlocutori funziona. E questo, alla fine, è un aspetto che conta tantissimo. Per farle un esempio concreto, nel dibattito sempre presente, soprattutto negli USA, tra creazionisti ed evoluzionisti lo scienziato evoluzionista è quasi sempre in difficoltà, in quanto cerca sempre di portare ragionamenti meditati e scientificamente inoppugnabili contro un creazionista che, ovviamente debole sul piano scientifico, è però efficace dal punto di vista comunicativo e che quindi riesce sempre a portare lo scienziato in posizione difensiva. Si era arrivati al punto, come strategia comunicativa, di consigliare di rifiutare la partecipazione a tali dibattiti agli scienziati. Burioni invece risponde, non solo correttamente ma con un’efficacia pari a quella dell’”anti-scienza” di turno. Può farlo perché parla a livello personale e non istituzionale, certo, però riesce a essere convincente. E inoltre mi è spesso capitato di leggere sue risposte non solo gentili ma anche spiritose, quando gli venivano poste domande con chiara onestà intellettuale. Ovvio, non è un divulgatore, ma non credo che Burioni voglia neanche esserlo, se non altro non come attività principale del suo lavoro.

Insomma, alla scienza credo servano anche personaggi come Roberto Burioni. Del resto, mi viene da pensare che nel calendario tra i Santi ci sono sia una persona esposta inerme al tiro delle frecce come San Sebastiano, sia un “guerriero” come San Giorgio che uccide il drago. Evidentemente serve anche la seconda figura. Anche alla scienza.

Un’ultima domanda, dottoressa: perché secondo lei l’aspetto della diffusione della cultura, nel senso più generale possibile, non è mai al centro dei programmi politici dei vari partiti?

Io non credo che questo problema sia solo italiano, ma molto più generalizzato. Vede, c’è un problema di immediatezza degli effetti di una scelta politica. L’investimento in cultura è a lungo termine, ed è l’unica strada che porta ad avere eccellenze, ma non si può dire con certezza né dove né soprattutto quando. Confronti questo con le politiche industriali i cui effetti sono molto più immediati e tangibili, e capirà perché le scelte culturali non ripagano in termini di immediato consenso. Facciamo l’esempio di un’obiezione alla globalizzazione sfruttata spesso in modo tristemente populistico. Si critica il fatto che ormai ad esempio le magliette vengono prodotte non più in Italia ma in Paesi dove il lavoro è a bassissimo costo (per ora), e che quindi la globalizzazione ci sta togliendo lavoro. Ma l’Italia, che è una grande potenza economica, non può, né deve competere in bassa tecnologia. L’Italia deve puntare sull’innovazione e in campi dove l’evoluzione tecnologica è in pieno svolgimento. E per far questo c’è bisogno di un’educazione scientifica e culturale di tutt’altro tipo. In questo senso, la globalizzazione diventa un’opportunità. Ma politicamente fare un ragionamento a lungo termine quando ci sono emergenze che coinvolgono moltissime persone e famiglie come quelle poste da una fabbrica che mette in cassa integrazione è difficile.

Colpa dei politici, quindi?

Ma i politici chi li elegge? La responsabilità non è mai di una parte sola. Molti plaudono, ad esempio, alla decisione di monetizzare il più possibile il patrocinio artistico. Ma questo se spinto all’estremo porta, a lungo termine, a degli svantaggi notevoli: Pensi ai Fori Imperiali di Roma. Ancora pochi anni fa, si potevano liberamente percorrere ed erano anche la via più breve per arrivare dal Campidoglio al Colosseo. Erano parte della città e i romani, vivendoli, si immergevano in quel patrimonio culturale inestimabile. Adesso, che vanno visitati con il biglietto d’ingresso, sono diventati un complesso museale che è estraneo alla vita cittadina. Alla lunga, non saranno più parte della città, ma solo una meta turistica.

Quando i luoghi d’arte erano aperti gratuitamente agli anziani, mi capitava spesso di vedere nonni che magari anziché portare i nipotini al parco li portavano in una zona archeologica (a Roma, oltre ai Fori, ad esempio alle terme di Caracalla). O che nelle giornate di pioggia entravano in un museo. I bimbi correvano e si muovevano in ambienti tra i più belli al mondo. Era una ricchezza e un privilegio straordinario, unico sul pianeta. Ora che l’ingresso gratuito agli anziani è stato tolto, in questi luoghi i piccoli entrano solo quando è pianificata una visita, che non porta sicuramente a quella naturale interazione con questi siti come la “passeggiata col nonno” poteva consentire. Per generazioni gli italiani hanno potuto muoversi liberamente fra i tesori creati dal genio dei nostri antenati, e questo ha influito profondamente sul nostro modo di essere. Ora questa liberà viene sempre più confinata, lei non crede che sia una perdita?