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Erano esattamente settantotto anni fa. La data è quella del 12 febbraio 1944. La più grave sciagura marittima del Mediterraneo. Che riguardò i soldati italiani, che tra l’altro si opposero al nazifascismo e che per questo stavano per essere internati negli stalag in Germania. Le vittime nelle acque lungo la rotta tra Rodi e Atene, davanti all’isola di Patroklos, furono 4.200, numero impreciso che comprende anche il personale dell’equipaggio norvegese, dei marinai greci e alcune decine di soldati tedeschi di scorta agli italiani.

Una tragedia letteralmente dimenticata, come a lungo è stata dimenticata la scelta di Resistenza che fecero circa 600.000 fanti in grigioverde, bersaglieri, carabinieri e alpini che rifiutarono di aderire alla Repubblica fantoccio di Mussolini e che per questo motivo patirono due anni di sofferenze indicibili nei campi di internamento, del tutto simili a quelli di sterminio con i quali, in molti casi, confinavano le baracche. In 60.000 non fecero ritorno, morti di fame, stenti e fatica, malattie. Torturati atrocemente, fucilati, gassati assieme ai deportati ebrei.

Lo status di questi soldati era quello di internati, non militari prigionieri e nemmeno civili detenuti. Un «limbo» appositamente umiliante, che li privava delle tutele della convenzione di Ginevra e degli aiuti della Croce Rossa, architettato dai nazisti per punire gli ex alleati che si erano ribellati dopo l’8 settembre. Quella dell’Oria è una tragedia tra le più orribili persa nelle tante di quei sette anni di guerra. I nostri perirono affogando a bordo di una carretta del mare. Probabilmente restarono ore sommersi sott’acqua andandosene uno dopo l’altro come accadde ai marinai della corazzata Arizona che ancora oggi, a Pearl Harbour, giace sul fondo con i corpi mai estratti. Sul quel che resta del relitto dell’Oria dei sommozzatori italiani hanno posato qualche anno fa un Tricolore. E come nella tradizione marinara, è considerato un Sacrario.

La nave di 2000 tonnellate, varata nel 1920, requisita dai tedeschi, salpò l’11 febbraio 1944 da Rodi alle 17,40 per il Pireo. A bordo le migliaia di prigionieri italiani — si legge nel sito che racconta la tragedia — che si erano rifiutati di aderire al nazismo o alla RSI dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943: poi novanta tedeschi di guardia o di passaggio e l’equipaggio d norvegese e alcuni greci. L’indomani, 12 febbraio, colto da una tempesta, il piroscafo affondò presso Capo Sounion, a 25 miglia dalla destinazione finale, dopo essersi incagliato nei bassi fondali prospicienti l’isola di Patroklos. I soccorsi, ostacolati dalle pessime condizioni meteo, consentirono di salvare solo 37 italiani, sei tedeschi, un greco, cinque uomini dell’equipaggio, incluso il comandante Bearne Rasmussen e il primo ufficiale di macchina.

L’Oria era stipata all’inverosimile, aveva anche un carico di bidoni di olio minerale e gomme da camion oltre ai nostri soldati che dovevano essere trasferiti come forza lavoro nei lager del Terzo Reich. Nel 1955 il relitto fu smembrato dai palombari greci per recuperare il ferro, mentre i cadaveri di circa 250 naufraghi, trascinati sulla costa dal fortunale e sepolti in fosse comuni, furono traslati, in seguito, nei piccoli cimiteri dei paesi della costa pugliese e, successivamente, nel Sacrario dei caduti d’Oltremare di Bari. I resti di tutti gli altri sono ancora là sotto.

La tragedia si consumò in pochi minuti ed è stata ignorata per decenni (questa si, altro che le foibe). Eppure si sapeva per filo e per segno come fossero andate le cose. Ci sono le testimonianze dei sopravvissuti, come quella del sergente di artiglieria Giuseppe Guarisco, che il 27 ottobre 1946 ha redatto di proprio pugno per la Direzione generale del ministero un resoconto lucido del naufragio: «Dopo l’urto della nave contro lo scoglio — scrisse Guarisco — venni gettato per terra e quando potei rialzarmi un’ondata fortissima mi spinse in un localetto situato a prua della nave, sullo stesso piano della coperta, la cui porta si chiuse. In detto locale c’era ancora la luce accesa e vidi che vi erano altri sei militari. Dopo poco la luce si spense e l’acqua iniziò ad entrare con maggior violenza. Salimmo in una specie di armadio per restare all’asciutto, di tanto in tanto mettevo un piede in basso per vedere il livello dell’acqua. Passammo la notte pregando col terrore che tutto si inabissasse in fondo al mare».

All’indomani, nel silenzio spettrale della tragedia, «i sette riuscirono — continua Guarisco — a smontare il vetro dell’oblò, ma non ad uscire da quell’anfratto, perché il buco era troppo stretto. Le ore passavano ma nessuno veniva in nostro soccorso (…). Uno di noi, sfruttando il momento che la porta rimaneva aperta, si gettò oltre essa per trovare qualche via d’uscita e dopo un’attesa che ci parve eterna lo vedemmo chiamarci al di sopra del finestrino. Ci disse allora che era passato attraverso uno squarcio appena sott’acqua. Un altro compagno, pur essendo stato da me dissuaso, volle tentare l’uscita ma non lo rivedemmo più. I naufraghi rimasero due giorni e mezzo rinchiusi là dentro prima dell’arrivo dei soccorsi dal Pireo. Quello che era riuscito ad uscire ci disse che dove eravamo noi, all’estremità della prua, era l’unica parte della nave rimasta fuori dall’acqua e che intorno non si vedeva nessuno all’infuori degli aerei che continuavano a incrociarsi nel cielo e ai quali faceva segnali. Poco dopo si accostò una barca con due marinai; essi dissero che erano italiani, dell’equipaggio di un rimorchiatore requisito dai tedeschi. Ci dissero di stare calmi che presto ci avrebbero liberati. Ma sopraggiunse l’oscurità e dovemmo passare un’altra nottata più tremenda forse della prima».

Dei pochi sopravvissuti dell’Oria più nessuno è rimasto in vita. Le spoglie di molti dei nostri stanno ancora nelle acque del Mediterraneo. Oppure seppelliti in tombe comuni di cui non si sa più nulla. Nei giorni e nelle settimane successive all’inabissamento i loro corpi continuavano a riaffiorare raggiungendo le coste di Patroklos e venivano tumulati in prossimità delle spiagge.