Morte della democrazia, di Benjamin Carter Hett– Einaudi – 2019 – €30,00

Quando si parla di populismo, di crisi dei sistemi politici, di inizio di tragedie, la Repubblica di Weimar, e la sua fine vengono spesso citate, non sempre a proposito.

Questo libro ha il merito di raccontare anzitutto la storia, eliminando determinate storture figlie ancora della propaganda di Goebbels e delle assurdità del Mein Kampf. Ma soprattutto, mette le cose nel giusto ordine: Weimar non venne assassinata: si suicidò.

Nata dalle macerie di una prima Guerra mondiale voluta dai militari che lasciarono vigliaccamente la responsabilità della resa ai socialdemocratici (e che accusarono poi di tradimento della patria…), i poco meno di quindici anni di vita di Weimar contengono in embrione tutto ciò che un regime democratico può rischiare: dall’oltranzismo comunista visto come UNICO pericolo (Rosa Luxemburg venne uccisa, Hitler si fece meno di un anno di prigione), a crisi economiche pagate da fasce di popolazione che cadono poi inevitabilmente sotto il fascismo del demagogo di turno, all’individuazione del nemico che ha creato la crisi (gli ebrei) per giustificarsi, fino alle squallide e inutili lotte di potere tra notabili miopi o legati a un mondo che non esisteva più.

È – come è giusto che sia – un libro di parte, ma che non per questo nasconde i fatti. Ognuno può trovarci i paragoni che vuole. Personalmente la grande differenza con l’attuale situazione trovo che sia in un mondo globalizzato e nel fatto che non ci sia più quella massiccia presenza di armi da parte dei partiti (almeno, non palese). Ma i rischi che si possa ritornare a un incubo del genere non sono azzerati per questo.

A fronte di demagogie sovraniste, c’è chi si preoccupa di gesti simbolici, chi di interessi particolari magari incontrando persone in autogrill, e chi ritiene che tutto possa continuare come niente fosse.

Il mio consiglio è di leggerlo, ma non sotto l’ombrellone: la vacanza ne risulterebbe rovinata.

Voto 4/5