L’ 8 Maggio del 1970 veniva pubblicato l’ultimo album dei Beatles
Let It Be fu registrato pressoché interamente in presa diretta ovvero senza incidere svariate versioni per scegliere la migliore.
Con l’uscita di “Abbey Road”, i quattro Beatles ormai sentivano di non avere più conti in sospeso.
Sebbene il pubblico che aveva potuto assistere al loro concerto sul tetto del quartier generale di Savile Row, il 30 gennaio 1969, fosse ancora in attesa di veder pubblicati gli altri brani con i quali i fab four erano tornati a suonare dal vivo, il 10 aprile 1970 arrivò la comunicazione ufficiale dell’abbandono di Paul McCartney, in contemporanea con l’uscita del suo primo disco solista, “McCartney”. Per “divergenze personali, lavorative ed artistiche, ma soprattutto perché sto meglio con la mia famiglia”, i Beatles avevano cessato di esistere. Nessuno sapeva ancora che, in realtà, John Lennon aveva già abbandonato gli altri tre da qualche mese: Allen Klein, il nuovo manager dei Beatles, lo aveva infatti convinto a tenere segreta la separazione per avere la possibilità di rinegoziare il contratto con la Capitol.
I Beatles dovevano ancora un film alla loro etichetta ma, pur avendo già del materiale pronto, nessuno dei quattro aveva intenzione di riprendere in mano il progetto “Get Back”.
Fu così che Allen Klein decise di contattare il leggendario produttore Phil Spector per comporre un album, rimettendo in ordine ore ed ore di registrazioni impolverate. Spector fu quindi convinto da John Lennon e George Harrison a riprendere i nastri inutilizzati dell’abortito LP, oltre alle riprese fatte a Savile Row.
Ad un anno esatto di distanza dall’inizio delle registrazioni di “Get Back”, i Beatles rientrarono in studio per l’ultima volta, il 3 gennaio 1970. Quel giorno la band, senza John Lennon, mise su nastro “I Me Mine”, uno dei due brani firmati da George Harrison per questo album, (l’altro era “For You Blue”, splendido omaggio ad Elmore James scritto per Pattie Boyd), che ripercorreva uno dei concetti più importanti della filosofia indiana: il raggiungimento della coscienza cosmica in cui non esiste alcun “ego”.
A questo punto, a Phil Spector non serviva nient’altro e si poté cominciare a lavorare sui brani registrati un anno prima.
Spector partì da ciò che Glyn Johns, ingegnere del suono e produttore mai certificato delle sessioni di “Get Back”, aveva presentato ai quattro nel mese di marzo: secondo la tracklist decisa da Johns, l’album avrebbe dovuto contenere 16 tracce, tra le quali la cover di “Save The Last Dance For Me” ed i brani “Teddy Boy”, “Rocker”, “The Walk”.
I quattro, però, avevano bocciato all’unanimità il progetto proposto da Johns, così Spector rielaborò la tracklist, alla quale aggiunse spezzoni di jam sessions (come nel caso di “Dig It”) e frammenti di conversazioni, e lavorò su ogni singolo brano usando la sua famosa tecnica del “muro del suono”, con la quale stravolse completamente il concetto base dell’album per cui non si sarebbero dovute applicare sovraincisioni: doveva essere una naturale rappresentazione degli ultimi lavori in studio dei fab four, invece prese le sembianze di una elaborata messa in scena.
McCartney era l’autore principale di quattro brani su 12, ovvero “Two Of Us”, racconto di un breve viaggio fuori porta con la sua Linda, “Let It Be”, scritta all’età di quattordici anni e rievocante un sogno in cui si incontrava con la defunta madre Mary Mohin, “The Long and Winding Road” e “Get Back”: quest’ultimo brano inizialmente doveva essere una satira nei confronti del razzismo verso gli africani e gli asiatici che popolavano il Regno Unito, ma dati versi come “non mi vanno giù i pachistani che vengono a rubare il lavoro alla gente, tornatevene da dove siete venuti”, che potevano comprensibilmente indurre gli ascoltatori ed i fan a tacciare i quattro di razzismo, il testo fu in seguito stravolto, divenendo la storia di Jojo, americano dell’Arizona, e Loretta Martin, scopertasi da poco un uomo. Lennon, qualche anno più tardi, diede una sua testimonianza a riguardo, dichiarando anche (e probabilmente per puro rancore) che Paul rivolgeva il suo sguardo a Yoko Ono ogni volta che doveva cantare il verso-guida “get back to where you once belonged”.
Lennon, invece, era autore di “Dig a Pony” ed “Across The Universe”, risalente al periodo di Kenwood e all’insoddisfacente matrimonio con Cynthia, durante il quale i Beatles avevano conosciuto il Maharishi, il cui maestro personale si chiamava Dev (“Jai Guru Dev” significa infatti “lunga vita al guru Dev”); il brano fu inciso per la prima volta nel 1968, con la partecipazione di due giovani fan nei panni di coriste, Gayleen Pease e la brasiliana Lizzie Bravo.
Completavano la tracklist “I’ve Got a Feeling”, la cui intelaiatura su due accordi rispecchia quella di “A Day In The Life”, “One After 909”, uno dei brani proposti live dai primi Beatles, i Quarry Men, e “Maggie Mae”, un motivo tradizionale di Liverpool che raccontava la storia di Maggie May, una prostituta divenuta leggendaria nella zona portuale della città.
Il lavoro di post-produzione realizzato da Spector non vide sempre il benestare degli autori principali: il produttore, infatti, non chiese mai l’opinione né di Lennon, né di McCartney o Harrison, tantomeno di Starr, nel cambiare e ri-arrangiare i brani di “Let It Be”. Oltre a rallentare e dilatare le varie tracce, Spector aggiunse sovraincisioni di archi e cori in più di un brano, come nel caso di “The Long and Winding Road”. Fu proprio per questo motivo che McCartney abbandonò di punto in bianco i Beatles, un mese prima dell’effettiva pubblicazione dell’album.
“Let It Be” fu, infatti, pubblicato l’8 maggio 1970 e fu seguito poco dopo dall’uscita dell’attesissimo ultimo film dei Beatles, il 13 maggio dello stesso anno. Nessuno dei quattro presenziò alla prima del documentario, con il quale il mondo capì che i Beatles di dieci anni prima non esistevano e non potevano esistere più: il film mostrò gli effetti dell’eroina su John Lennon, la frustrazione di George Harrison per la poca considerazione che riceveva dagli altri tre, l’impotenza di Ringo Starr e la prepotente indipendenza di Paul McCartney, il quale 33 anni dopo decise di pubblicare “Let it be.. Naked”, ovvero l’album come era stato concepito inizialmente, senza sovrancisioni.
La fine dei Beatles coincise con l’inizio di tre differenti carriere soliste, che portarono alla creazione di ben altri grandi capolavori artistici e musicali: e come disse George Harrison, “all things must pass”.